I Galilei - Puntata n.10

Un bivio.

Della morte e del suo suono il signor Galileo non aveva alcuna esperienza. Forse anche per questo la cosa precipitò mentre lui dormiva con le braccia conserte nell'ultima fila di sedili, la tempia sinistra incollata al vetro del finestrino.
Si destò alle prime parole concitate di chi stava viaggiando con lui lungo la campagna, sopra una statale poco battuta, umida di pioggia fitta come nebbia.

Quando la marcia si arrestò uno di loro aprì lo sportello laterale del camioncino. In due, come potevano, sollevarono l'animale e lo posarono sulle prime zolle fradicie di un campo deserto: delle piante di granoturco erano rimasti migliaia di fusti incisi nello stesso e basso punto, in file uguali, a perdita d'occhio.
Aveva smesso di reggersi sulle zampe da qualche giorno, il cane Galileo, e nelle ultime ore il suo sguardo si era nascosto dietro a due sottili fessure prive di umore. Adesso il suo respiro chiedeva aria, lo faceva con colpi di tosse quasi umani, e quando finalmente la trovò il suo naso e la sua bocca sentirono bruciare.
Esistono storie che s’interrompono nello stesso modo in cui si interrompe l'ispirazione di uno scrittore, oppure di un cantante. Sono storie che si arrestano nell'esatto momento in cui dovrebbero, anche se apparentemente danno l'idea di cadere bruscamente e senza alcun senso.
La storia del cane Galileo si interruppe lì, a bordo di una strada asfaltata. Il senso di tutto quel che accadeva si propagò nell'aria e si stese sul suo muso, finalmente rilassato e disteso. Il perché delle cose stava in quello che aveva compiuto negli ultimi mesi. Azioni spese non per sé, ma per un altro, il suo padrone, colui che anni prima, dopo averlo trovato nell'androne del suo palazzo, aveva scelto di chiamarlo col suo stesso nome, o quasi: "Non pensare che ti voglia chiamare come me” aveva affermato con voce ferma il signor Galileo quella volta, “figuriamoci! Io mi chiamo come mio nonno, uno che si era giocato tutto a carte e che si trovò vecchio e solo senza una lira, tu invece ti chiamerai come quello che della luna ha fatto la sua migliore amica.".
Il perché, dunque… Aver svolto il proprio compito fino alla fine e fino a quando ce n'era stato bisogno. Essere stato l’occhio fedele di chi ne cercava di nuovi per sé. E una volta che li aveva trovati, farsi da parte.
In quei giorni di primo inverno lui e il suo padrone stavano finalmente viaggiando. Viaggiavano con una banda di suonatori fra cui c'era Ermes. Passavano di teatro in teatro facendo della musica un suono e, nel caso del signor Galileo, delle immagini per orecchio. L'idea era stata proprio di Ermes: far diventare tangibile la teoria del professore. "Ma come?" aveva chiesto il signor Galileo quella volta in cui se ne stava parlando sul serio. "Raccontando" aveva risposto Ermes. "Non scherziamo, un professore di scienze in pensione che si mette a fare il poeta!"  aveva obiettato lui.
Proprio così andò. E se non era un poeta, poco ci mancava. Il signor Galileo sapeva alzarsi fino alla luna con le parole, quando qualcuno suonava attorno a lui. Portava vicina ogni cosa lontana.
Ora però i Galilei si separavano.
Il professore fu aiutato a muoversi e si mise seduto al bordo del camioncino. Gli allungarono il braccio nel vuoto finché la sua mano non trovò il pelo del cane.
Ecco, la morte un suono ce l'aveva. Era il mormorio di un tradimento, come mettere insieme una terzina di note: DA TE NO.
Ma chi vive non può capire tutto, solo alcune cose. Allora come un'eco sorse una risposta. Le nuvole, all'orizzonte, si sfilacciavano sopra altri campi e altri boschi. L'alba si componeva un tono di rosa dopo l’altro. Il signor Galileo la vide. Era come un respiro dopo un'apnea.        
Esistono storie che devono proseguire per forza come forzatamente scrive uno scrittore, oppure canta un cantante. Sono storie che vanno troppo oltre, ma vanno dove devono, a costo di apparire affannate.

Il camioncino dunque ripartì dopo che una buca fu scavata. A giorno fatto arrivò in una nuova città. Si fece colazione tutti insieme, e il sole lassù sembrava una luna travestita da maschio.

I Galilei - Puntata n.9

Le cose appena accadute.

I contorni sfuocati di una banda, tutti in fila per due, i tasti degli ottoni, le mostrine di tela, il contorno di cappelli colore del cielo, un naso sorridente, la riva del mare, i sassolini bianchi che si scuriscono non appena li tocca una suola bagnata di scarpa, i gabbiani come lettere nere in un foglio senza righe né quadri, la sagoma di un olivo, il legno scrostato di una barca, un mucchio di alghe, fogli di giornale, il telo di un bersò, qualche tavolo, un’isola nascosta dalle onde, il fumo di un fuoco, l’anima sfumata di una conchiglia, una corda, il sale incrostato, la greca dei palazzi tra il golfo e la montagna, un porto, una bambina che salta e oscura il sole, una mano bruna e tozza che accarezza un gatto con la coda bianca, di nuovo la banda questa volta in cerchio, la bacchette del tamburino, una bicicletta abbandonata, due nuvole vicine che ne formano una,  un ciuffo, le proprie ginocchia. E il volto morbido, semplice, umano del suo cane.
Furono queste le ultime cose che il signor Galileo riuscì a intravedere in vita sua. Quello che i suoi occhi gli avevano appena regalato era stato un desiderio esaudito, un ultimo saluto. Poi la saracinesca si chiuse una volta per tutte.

Un applauso lungo e asciutto si sparse nell’aria.
“Professore!”
Ermes gli correva incontro raggiante dentro la sua nuova divisa blu, i bottoni lustri, la cravatta a nodo fine.
“Allora, cosa gliene pare? Come sono andato?” domandava col fiatone.
Il signor Galileo aveva lo sguardo perso tra la linea della spiaggia e quella delle onde. Un ragazzino era rimasto l’unico ad applaudire ancora, Ermes si voltò in quella direzione, sorrise lievemente, infine tornò con lo sguardo dritto sull’uomo.
“Professor Arcetri, va tutto bene?”
Uno schizzo d’acqua raggiunse le camicie di entrambi.
“Certo! Sì, certo…” pronunciò il signor Galileo. Si alzò. “Vieni Galileo, portami” aggiunse, e si appoggiò all’animale con quell’abbandono che solo con un amico, dopo una sbornia, ci si concede.
Il cane scelse una roccia sulla battigia qualche centinaio di metri più in là. Quando si trovò seduto, il signor Galileo chiese al compagno se fosse pronto.
“Non essere buono” stabilì. “Abbaia solo se è come dico.”
Passò qualche secondo in cui il mondo andò avanti.
“Un windsurf, vicino alla boa. La vela è appena caduta in acqua…” certificò il signor Galileo.
Il cane abbaiò una volta. Poi un’altra. “Non esagerare” lo pregò l’uomo.
“Quella barca in secco…” proseguì. “Il bimbo nascosto chiederà una tana libera tutti.”
Si sentirono grida, qualche protesta, e un urlo di gioia. Il signor Galileo aveva indovinato di nuovo e il suo compagno glielo confermò.
“Eccovi!” disse una voce. Ermes aveva congedato i compagni, portava il sassofono ancora al collo. Non aveva trovato una custodia in tempo. “Professore! non ha sentito il mio assolo?”
La risacca trascinava i ciottoli. I tre s’intesero senza cercarsi.
“Allora è successo… Vero, professore?” domandò Ermes.
“Sì, è capitato” confermò Galileo, l’uomo. E come se intuisse che una cosa, quando accade, già si è trasformata nel suo contrario, disse: “Sono felice.”
Ermes non capì il senso di quelle ultime due parole. Pensò che il signor Galileo volesse partecipare della sua felicità, dell’appagamento dopo il suo primo concerto, che condividesse la sua scelta di ripartire da lì, da una banda di paese che si ritrovava una domenica di ottobre a festeggiare il santo patrono. Per questo rispose “grazie”.
Ma il signor Galileo, senza egoismi, parlava solo per sé. Aveva appena elaborato la sua prima teoria personale. Unica, apparentemente infallibile. E nulla ascoltò se non i colori, la carnagione di quella sera neonata.
  
  
    

I Galilei - Puntata n.8

Familiarità.

“So cosa succede. Uso le mani. Ma è difficile spiegare a parole quello che faccio…”
Ermes parlava del suo non sapere con una voce nata di nuovo. I suoi discorsi adesso erano fermi come vecchi alberi, pieni di belle pause, lunghe o corte, messe al punto giusto. L'uomo parlava con le virgole.
“Vede, professore. E’ così: basta diventare coscienti di quello che si fa un attimo dopo averlo fatto. Non prima, non durante e nemmeno troppo in là. Solo un attimo. E’ in quella minuscola assenza che la mano torna al suo posto.”
Erano i primi di settembre. Da più di un mese Ermes passava ogni istante libero insieme al suo strumento. Anche ora, da seduto, lo teneva sdraiato sulle gambe come una mamma col suo bambino, alzando a tempo i talloni per cullarlo e farlo dormire.
Il signor Galileo invece giocava con un tappo di sughero sul tavolo della cucina. Da giorni non faceva altro che chiedergli di suonare, suonare di continuo. Voleva conoscere, sapere com’è che dopo tanti anni le cose non si dimenticano, anzi migliorano, cosa significhi riprendere fiato, proiettarsi dentro qualcosa di così immateriale e ritornare in sé ancora vivi, pronti, forti. Diventare in qualche modo maestri del tempo e delle forme.
Poi trasferì l’ansia degli ultimi giorni alle sue gambe e si alzò. Galileo il cane scattò da sotto il tavolo come un San Bernardo che abbia fiutato aria di valanghe.
“Vorrei andare”, disse.
“E dove?” chiese Ermes.
“Andare a vedere” ribatté l’uomo.
Tutti lì sapevano che il signor Galileo non vedeva quasi più nulla. Ai suoi occhi forme e colori si erano ormai del tutto ingarbugliati in una grande massa di luce diafana che rendeva le cose indistinguibili. Il mondo, per lui, stava seguendo il destino di una supernova: prima di cadere nel buio, esplodeva di luce. Difficile dire cosa volesse e potesse vedere, ora.
“Lo hai con te?” chiese il signor Galileo a Ermes una volta in strada.
“Sì, ce l’ho” rispose lui che camminava con il sassofono ciondolante al collo.
Durante il tragitto, a volte sotto il sole, a volte all’ombra della macchia che cresce oltre gli ultimi palazzi, Ermes rifletteva sull’ossessione che il signor Galileo aveva dimostrato per quello strumento dalla sera in cui lo avevano prelevato dalla villa di suo figlio Bellarmino. E come se avesse intuito i dubbi e le domande che albergavano nei cuori dei sue due compagni (anche il cane Galileo aveva i suoi punti di domanda), il signor Galileo cercò di spiegarsi non appena furono giunti lì dove la baia termina e il faro apre le porte del mare.


“Il fatto è questo” incominciò. “Sono mesi che cerco di prepararmi nel migliore dei modi. Al momento in cui non vedrò più nulla, intendo. Credevo che bastasse un po’ di metodo, di precisione, ma quelli sono nulla e poi spariscono non appena gli eventi rotolano. Come hanno fatto ultimamente…”
In tutto il suo giudizio il cane Galileo notò che il suo omonimo parlava diversamente da un tempo. I suoi discorsi erano pur sempre chiari, eppure velati da una qualche balbettante emozione tra un respiro e l’altro, come quelli delle persone semplici.
“Ho paura del buio” riprese l’uomo. “L’avevo anche da bambino: ogni sera prima di addormentarmi, quando le luci erano tutte spente, io ripassavo a memoria ogni angolo della casa, ribattevo le stanze palmo a palmo, toccavo col pensiero soprammobile dopo soprammobile, e solo quando ero certo di poter ritrovare tutto al suo posto anche nel buio, allora mi lasciavo andare.”
Ermes, con la bocca leggermente aperta, fissava prima il faro e poi il signor Galileo. Gli pareva avessero la stessa intermittenza. Poi, quasi anticipando l’uomo, pronunciò, guardando nel vuoto, la parola familiarità.
“Esatto, sì… familiarità” confermò il signor Galileo. “Ho bisogno di rendere il mondo una cosa familiare ora che le luci della stanza di stanno spegnendo.”
“E il modo?” pensò fra sé il cane Galileo, seccato che non si arrivasse al dunque. “No dico, il modo l’hai trovato?”
Il modo, per un professore di scienze in pensione che non aveva mai creduto nelle cose che non si vedono, doveva essere una cosa chiamata “suono”. Gli ultimi tempi erano stati una palestra dentro cui abituare le orecchie a fare la parte degli occhi, e adesso era venuto il momento di sperimentare quanto fosse possibile vederci, con le orecchie.
“Se solo io sapessi quante navi entrano ed escono dal porto”, cambiò tono il signor Galileo, appoggiandosi alla staccionata. “Se solo io sapessi come sono fatte queste navi, il colore, il tipo, la stazza, se sono navi da guerra o da carico o traghetti pieni di camion o crociere affollate di macchine fotografiche… E se capissi com’è il mare, quanto alte le onde, di che tinta il fondale… La familiarità, giusto? Come da bambino. Quando contavo tutto, catalogavo e conoscevo e stavo tranquillo.”
Non c’era vento. La prua di una nave metteva il naso nelle acque libere del mare aperto.
Ermes aveva capito: suonò una sola, semplice, lunghissima nota grave, con un leggero guizzo metallico sul finale.

Il signor Galileo sorrise e disse: “Ecco, così!”

I Galilei - Puntata n.7

La musica della scoperta.

La roba stava ammucchiata tutta in una stanza. Era un enorme salone da ricevimenti, buio, con le persiane abbassate, il pavimento lucido e un odore di cera nell’aria. Al centro incombeva, come uno scoglio affiorante dall’acqua, quel cumulo di scatoloni, valigie e casse di legno a cui aveva accennato con un certo distacco il custode all’ingresso della villa.
Entrando, il cane Galileo si era espresso in un guaito rimasto in sospeso tra i quattro angoli della sala per un tempo infinito, mentre il signor Galileo avanzava silenzioso a braccetto di Ermes Bonaventura: nella semioscurità della stanza, avanzata com’era la sua malattia, non vedeva nulla se non fili sottili di luce che lo disturbavano.
“Cosa c’è?” chiese annusando l’aria.
“C’è un mucchio di roba che ci guarda” rispose il suo bastone.
Si avvicinarono. Come un oracolo il signor Galileo stese le braccia in avanti e toccò. Era spaesato ma tranquillo.   
“E ora cosa facciamo voglio dire siamo venuti fin qua qualcosa bisognerà pur fare o no?” domandò Ermes, che tuttora parlava senza virgole e che sentiva il peso di una responsabilità.
Il signor Galileo non era lì per sé, ma per saldare un vecchio debito. Sapeva che in quella montagna di ferri vecchi e reliquie di famiglia non c’era nulla per un vecchio cieco come lui, rimasto senza casa. La partita, lì, doveva giocarla qualcun altro.
“Ti secca farmi sedere?” pregò.
Ermes sfilò una cassa di legno dal grande cumulo e vi ci fece sedere il signor Galileo.
“Grazie. Ora cerca.”
“Cerco cosa?”
“Qualcosa di tuo.”
“Professore qui non c’è nulla di mio.”
“Non si sa mai.”
Ci fu un silenzio breve come certe primavere. Poi il vecchio sentì i primi fruscii, qualche oggetto spostarsi, un calpestio, i cartoni sfregare.
“Un presepe napoletano…” commentò Ermes alla sua prima scoperta.
La cosa sarebbe stata lunga e il professore lo sapeva. Lo sperava, perlomeno.
Il tempo evaporò, si sollevò. La luce del giorno si caricava lentamente di scuro finché dalle fessure delle imposte non entrò qualche fiacco raggio di luna.
Ermes stava scavando ormai da ore in quel monte di cianfrusaglie, e continuamente rendeva conto al signor Galileo di quel che portava alla luce (la luce di un grande lampadario di cui con sforzo aveva trovato l’interruttore): “Bastone da passeggio… Porta carte in osso… Racchette da neve…”
Dei grani di quel lungo rosario, ovviamente, il signor Galileo riconosceva solo l’odore. Restava in ascolto di quel cercare impacciato: metalli che si incontrano, un legno spezzato, pagine impolverate che vengono smosse. C’era nell’aria la sensazione che la vita restasse anche negli oggetti, e che gli oggetti fossero a volte anche più sinceri della vita. Sudato, Ermes ne disseppelliva le tracce. Frugava nella memoria di altri, nelle ragioni di amori poco sbocciati, nelle indifferenze che abitano in tante famiglie. E in mezzo a tante cose non sue, con il passare dei minuti e delle ore, il suo inconscio gli spiegava che i Galilei erano lì per lui, per fargli una sorpresa.
Che musica! Il suono dei desideri, del cuore che tamburella per qualcosa, del ricordo che picchia forte tra il passato ed il futuro.

La villa ora era vuota. Dovevano averli dimenticati lì. Fuori, nel piccolo parco, le punte degli alberi si muovevano al vento di un temporale fatto altrove, lungo la riviera. Dentro la sala il lavorio proseguiva: Galileo il cane dava una mano, odorava scatola dopo scatola, leccava le cose sperimentandone il sapore, finché il suo umido naso sbatté contro una superficie lucida e fredda, leggermente polverosa, liscia come un pomo d’ottone.
Abbaiò perché sapeva.
Ed Ermes corse fino all’altro lato della pila.
“Che c’è cagnone cos’hai trovato?”
Scalpiccio di vecchi fogli di carta di giornale.
“Insomma perché hai abbaiato?”
Se le virgole hanno un suono, se ce l’ha un vecchio filo di spago, che trattiene le cose come fanno i ricordi.
“Vediamo un po’…”
Un pacco che cade. A Ermes tremano le mani. Le mani che toccano. La musica della scoperta. Qualcosa che esce. Un sassofono.
Non appena il tremore passò, l’uomo sistemò le mani e la bocca dove sapeva. Sentì sulla punta della lingua la grana fine della polvere. Poi soffiò dentro l’ancia.

Prima un fischio stridulo come il verso di un gabbiano. Poi un altro, ma più intonato. Infine nel salone, che adesso era diventano grande e pieno come il mondo, si versò una melassa di note che al signor Galileo, tuttora seduto al suo posto, parvero la quintessenza della pienezza, la cosa più corposa e meno incerta che possa mai trovare posto sulla Terra.

I Galilei - Puntata n.6

Papà.

Quando giugno arrivò, fu un mese pieno di domande e di polline. Tutte cose che di solito mettono prurito al naso. E il signor Galileo si rivelò il più allergico dei tre abitanti di quella minuscola casa.
Nelle lunghe notti in cui Ermes lavorava giù al porto, mentre Galileo il cane mugugnava nel sonno stando raccolto sul divano, egli rimaneva immobile a pensare, avvolto dal buio.
Quei gomitoli di pensieri, ruvidi come la iuta, si riavvolgevano puntualmente tutti quanti attorno a un gancio appuntito, un uncino, che il signor Galileo sentiva avvitato nella zucca  e che, ormai ne era certo, aveva la forma precisa di un punto interrogativo.
Per quanto tempo sarebbe rimasto ospite del suo ex alunno Bonaventura? E come avrebbe affrontato la sua ormai prossima cecità? Ma soprattutto: che fine aveva fatto suo figlio Bellarmino, il quale non solo aveva misteriosamente cessato di versare la retta alla casa di cura dove l’aveva scaraventato, ma da una settimana non rispondeva nemmeno più al telefono?
Qualche notizia la portò Ermes un mezzogiorno tornando dal lavoro. Un trafiletto di giornale, cacciato in fondo tra la cronaca locale, diceva che Bellarmino Arcetri era finito in prigione: la sua società immobiliare, quella società che qualche mese prima aveva costretto il signor Galileo ad abbandonare come un profugo la sua soffitta, aveva frodato lo stato più o meno da quando era nata, ed ora gliene si chiedeva il conto.
La notizia colse l’uomo come la tiepida aria umida di un temporale annunciato. Il non poter leggere da sé quella notizia e il non riuscire a vedere i segni che essa lasciava sui volti dei suoi compagni, forse, lo avevano predisposto a una certa indifferenza.
Ma le prima gocce di pioggia non tardarono ad arrivare.
Una lettera, che Galileo il cane afferrò con i denti da sotto la porta (come sapessero che ora il signor Galileo abitava proprio lì è ancora un mistero), gli comunicava che la casa del figlio stava per essere messa all’asta e che i parenti – ovvero lui – erano invitati a ritirare dall’abitazione ciò che ritenessero di loro proprietà.

Se ne discusse una sera in cui fuori tirava vento. Ermes era nervoso, le sue mani tremanti avevano appena fatto cadere un bicchiere. Il signor Galileo disse che non aveva alcuna intenzione di visitare la casa del figlio, in tanti anni non c’era mai stato e non ci teneva ad andarci proprio ora. Anche Ermes disse la sua, ovvero che un salto lo si sarebbe potuto fare, era un peccato che qualche ricordo di famiglia finisse nelle mani di uno sconosciuto avvoltoio. Ma oltre non andò, quella sera il suo turno iniziava prima del solito perciò lasciò le stoviglie nell’acquaio e uscì di corsa.
Il signor Galileo restò per un tempo lungo e impreciso nella sua posizione, alla testa del tavolo. Le voci del vicolo entravano dalla finestra, si sentivano le pallonate dei ragazzini ormai liberi di fare tardi. Forse i più grandi di loro avevano l’età in cui Ermes aveva indossato per la prima volta la tuta da lavoro. Sedici anni, al porto, tutte le notti. A pensarci bene non era stato un così cattivo studente, quel Bonaventura… Certo, per nulla studioso, ma intelligente, acuto. In qualche maniera, appassionato alle cose. Una volta lo aveva sfidato davanti a tutta la classe, aveva detto che lui i compiti non li faceva perché preferiva suonare il sassofono. Stravedeva per la musica. Che seccatura era invece all’epoca per lui, la musica, con quel figlio viziato in casa a stressare, l’idea di suonare uno strumento, andare a lezione, ci mancava solo quello. Cosa sarà, cosa te ne fai, cosa ti serve la musica adesso, pretendeva di sapere da Bellarmino ogni volta che a tavola lui rimetteva sul piatto la solita questione. Per fortuna era capitato il caso dei Bonaventura, quel sassofono del figlio ritirato da scuola…
A quel punto il signor Galileo sentì caldo e provò imbarazzo. Quei ricordi lo fecero sentire in colpa: certo, erano passati più di vent’anni, ma il pensiero che venisse dalla sua penna quell’ultimo brutto voto, quel segno sul registro che aveva regalato al suo studente una vita di stenti e a suo figlio uno strumento nuovo di zecca, lo infragilì. Molto più ora di quando, giorni prima, la stessa storia gli era stata raccontata dall’interessato in persona.
Si alzò e a tentoni raggiunse la stanza brancolando, un salottino che faceva da tutto tranne che da bagno. Prima di uscire Ermes aveva aperto il divano letto e lo aveva preparato per la notte. Lui ci si sdraiò sopra come se avesse qualche anno in più sulle spalle. Allungò il braccio e stese la mano sopra il pelo cortese del suo cane. E restò.
Restò: questo fece il signor Galileo. Restò e sentì. Sentire è una cosa di pelle, pensò. Pensò anche che in quella casa sconosciuta ci sarebbe andato. Poi disse: “Galileo, cerca un bel disco che parli di un padre.” Lo sentiva, l’odore di vecchio dei dischi, ovunque in quella stanza. Il cane si mosse, usò il suo fiuto, ma non ne trovò.

   

I Galilei - Puntata n.5

Un passaggio.

Il professor Galileo Arcetri era stato un insegnante vecchia maniera, precisissimo, così preoccupato di far fruttare ogni minuto in cui sceglieva di mettere la sua sapienza a disposizione della collettività che, fosse stato possibile, avrebbe sacrificato un occhio della testa pur di eliminare dal lunedì quegli odiosi dieci minuti d’intervallo che interrompevano sul più bello le due ore consecutive di lectio magistralis in terza A.
In generale, a detta degli studenti, le sue lezioni sembravano durare il doppio, tanto erano fitte di glossari botanici, appunti di genetica, riproduzioni cellulari, tettonica a placche e schemi di chimica organica. Raramente si concedeva più di cinque minuti d’interrogazione: anzi, cinque minuti erano già troppi perché i farfugliamenti di un impreparato qualunque togliessero tempo e spazio alle sue dotte prolusioni.
Quel giorno doveva essersi alzato con il piede sinistro e una luna storta come la mandibola di un pugile, si era seduto con il cappotto indosso e senza consultare il registro aveva pronunciato il nome di Bonaventura con l’intonazione di un oracolo.
Bonaventura non aveva studiato. Non ci fu nemmeno bisogno di impiegare tutti e cinque i minuti: a metà del secondo aveva già sbagliato il numero atomico del Selenio e si era confuso sulle proprietà dei metalli alcalini. Cadute inappellabili che l’avevano rispedito al posto con un 4 sul libretto che, di fatto, consisteva nel suo ultimo voto di scuola. Dopo sei mesi senza lo straccio di una sufficienza e la prospettiva di una più che attendibile bocciatura, infatti, i signori Bonaventura ritirarono il figlio e lo spedirono senza ricevuta di ritorno nel mondo del lavoro.

Allontanarsi dai banchi di scuola e dagli occhiali appannati dei professori era stata in sé anche una bella cosa per il giovane Ermes Bonaventura. Ma, più che quello delle merci che iniziò a sollevare al porto, per il ragazzo fu insostenibile il peso di dover abbandonare gli studi di musica, il suo strumento e il sogno di mettere in piedi una di quelle big band da fare invidia al Cotton Club. Padre e madre erano stati irremovibili: la vendita del sassofono avrebbe in parte rimborsato il denaro speso inutilmente nel tentativo di farlo diventare uomo di cultura. E, affronto ancor più grave, lo strumento era stato messo in mano alla causa d’ogni sua rovina, quel professor Arcetri il cui figlio s’era messo il pallino di uno strumento a fiato.

Tutte queste cose Ermes Bonaventura le raccontò davanti alla tazza di infuso al carciofo che il suo vecchio professore si era fatto preparare. Si trovavano in una stanza spoglia al secondo piano di una clinica per anziani ed invalidi. Era un tardo pomeriggio di fine primavera, quell’ultima ora e mezza di luce in cui i ricordi si fanno di sale.

“Capisce professore dopo tutto questi anni rivederla nel mezzo della piazza a fianco di quel vecchio tiranno a convincere un ragazzino di sedici anni che la sua vita non sarebbe più stata la stessa se si fosse portato a casa un 78 giri di Benny Goodman insomma c’è da rimanere o no stupiti?”
Il signor Galileo si chiese tra sé e sé per quale strano motivo il suo ex alunno Bonaventura parlasse senza virgole, ma si trattenne dal farne un argomento di discussione. Si limitò a rispondere con una domanda:
“E così tu e Galileo vi conoscete?”
Galileo, il cane, osservava entrambi steso su un plaid ai piedi del letto.
“Ma scherza professore Galileo è di casa ma di sicuro non avrei mai pensato che fosse suo sapesse le volte in cui mi sono chiesto chi diavolo fosse il padrone…”
Ermes, l’uomo che parlava senza virgole, in un lampo si ritrovò a raccontare al signor Galileo di come il suo cane lo visitasse ogni giovedì sera per ascoltare un disco di quelli che lui si procurava in quella certa maniera, e di come da un mese le sue visite fossero state sempre più frequenti. Aggiunse anche che era stato lo stesso Galileo a condurlo in piazza e a farli incontrare.
“Certo…” disse il professore. “Nell’ultimo periodo sono successe alcune cose.”
E Galileo, l’uomo, in un lampo si ritrovò a raccontare al suo vecchio alunno come in pochi giorni fosse stato cacciato di casa e spedito in una clinica per vecchi e malati, del Gracco, dei dischi e del cane che non sentiva più nemmeno abbaiare, dopo che di vederlo aveva già smesso da un po’.
Le parole continuarono a scorrere come l’acqua in un lavandino, e le orecchie del cane restavano gioiosamente drizzate nel sentire amico e padrone parlare e conoscersi.
Nei giorni successivi Ermes e il cane tornarono nella stanza del signor Galileo svariate volte, sempre di nascosto dalle infermiere ma soprattutto dal tignoso Gracco, che già fiutava tracce di forestieri. Ogni tanto puntava il muso nella stanza e gridava: “Arcetri, ti aspetto di là per sistemare gli ultimi arrivi!” oppure “Arcetri, domani al banco in piazza hai il doppio turno!”
Un pomeriggio Ermes affrontò la questione:
“Professore io proprio non capisco perché presta il fianco agli artigli di quell’uomo è vero capisco che questa cosa dei dischi l’abbia molto presa nell’ultimo periodo però quello se ne approfitta dia retta a me.”
Il signor Galileo sapeva che a quelle parole c’era poco da obiettare. Così, per spostare l’attenzione, diede sfogo al dubbio che lo assillava da giorni.
“Ma senti Ermes, com’è che quando parli non prendi mai fiato?”
Ermes rimase con l’espressione fissa e immobile di chi vorrebbe rimanere da solo dentro una stanza vuota. Poi rispose.
“Professore io tutto il fiato l’ho lasciato anni fa dentro un sassofono si ricorda?”
Il giorno dopo dalla segreteria della clinica comunicavano che nessuno aveva più pagato la retta mensile e che la stanza 102 andava liberata.
Il signor Galileo fu accolto a braccetto nella piccolissima casa di Ermes Bonaventura.     

    

I Galilei - Puntata n.4

Via, via, vieni via con me.

Un mese dopo i nostri personaggi erano ancora tutti vivi. Galileo, il cane, si premurava di fare due abbaiate di conforto, ogni giorno, sotto il terrazzino della stanza 102 della pensione dove il suo padrone Galileo si era da poco trasferito. Quest’ultimo, però, si trovava per la maggior parte del tempo nella stanza 103, e certo non poteva sentire quei latrati canini, impegnate com’erano le sue orecchie in compiti nuovi e di grande responsabilità. Il Gracco, lo aveva assoldato per riordinare la montagna di dischi che sorgeva intorno al suo letto: “Prendi a caso da uno degli scatoloni,” aveva detto “metti il disco sul piatto, appoggiaci sopra la puntina e stai in ascolto”. Per lui, che nella sua vita aveva portato un disco fino alla fine forse una ventina di volte e non di più, fu come iscriversi al Conservatorio. Imparò a selezionare e accatastare: il rock (tamburi pesanti e suoni ruvidi) andava sul comodino di destra, il blues (l’incedere di un cavallo al galoppo) sopra quello di sinistra, l’italiana sotto la finestra, la classica di fianco alla porta del bagno, il jazz (la libertà) sotto la sedia vicino all’ingresso. Con quel poco di vista che gli restava imparò a muoversi in quel disordine con la sottigliezza di un topo d’appartamento. E la sua perizia di catalogatore aumentò col passare dei giorni, aprendosi anche a generi più specifici come quello dei cantautori, del funk, del free jazz, del country e del metal.
L’infermiera addetta alla consegna del pranzo lo coglieva concentrato, con entrambe le mani appoggiate sulle auricolari di un paio di vecchie cuffie, e spesso ritirava il vassoio senza che nulla fosse stato toccato.
Tanta dedizione fece guadagnare al signor Galileo un’insperata promozione. Una mattina fu convocato prima del solito nella stanza 103. Due uomini stavano sollevando alcuni scatoloni, e il Gracco gli comunicò che quel giorno avrebbe potuto (o meglio, dovuto) seguirlo nelle sue importanti questioni giù in città. Due minuti dopo erano fuori.
Quando Galileo, il cane, che si era appena posizionato come al solito al centro della strada, vide comparire due uomini larghi e duri come noci che tenevano a braccetto il Gracco e il signor Galileo, pensò bene di nascondersi perché la cosa non lo convinceva affatto.
I quattro salirono sopra un furgone bianco, sparirono oltre l’isolato, e il cane corse loro dietro. Li raggiunse che si erano appena piazzati dietro una bancarella lunghissima colma di dischi, un luogo e una situazione che l’animale ricordava bene.

“Ma che c’è da strillare tanto” si lamentò l’uomo che parlava senza virgole. La finestra del suo bagno era rimasta aperta e Galileo, con il muso tra le inferriate, stava abbaiando a gran voce. L’uomo si appoggiò al lavandino in pigiama e aggiunse: “Sono le undici sto per andare a dormire e poi non fare così mi sbavi sulle primule”, ma l’insistenza del cane lo costrinse a farlo entrare. “Beh?”
I due si guardarono. L’uomo che parlava senza virgole, stravolto dopo una notte passata ad alleggerire una portacontainer panamense, si chiese perché le persone non potevano fare come i cani, ovvero fregarsene e mettersi a dormire anche lì, sul pavimento; il cane si chiese perché i cani non potevano fare come le persone, ovvero parlare e farsi capire.
Abbaiò di nuovo grattando sulla porta, come per convincerlo a uscire, ma l’uomo ormai aveva frainteso, pensava che il cane volesse fermarsi da lui, così diede un paio di mandate alla serratura: “Ora però posso andare a dormire?”
Galileo sapeva che in quella casa non avrebbe trovato nessun guinzaglio da mordere. Così, per dire “usciamo!” dovette usare l’intelligenza. Cercò tra gli scaffali del piccolo salotto qualcosa che potesse parlare per lui, e quando l’occhio gli cadde sul vecchio disco che apriva la fila lo tirò giù coi denti. Sulla copertina, mani in tasca, un signore baffuto passeggiava dentro un cappotto nero e si specchiava dentro una vetrina.
L’uomo che parlava senza virgole disse che proprio no, non era quello il momento di ascoltare dischi; ma poi pensò che se un cane sceglieva un disco di Paolo Conte forse qualcosa di serio da comunicare ce l’aveva. E lo fece suonare.
Un pianoforte, col ritmo incalzante di un treno, e le prime sei parole che dicevano tutto. L’uomo si girò e vide il cane con una zampa sopra i suoi jeans. Sbuffò, se li mise e lo seguì fuori, alla luce, con la certezza che la sua sarebbe stata una giornata senza sonno. “Spero che il motivo sia valido” disse.


Nervoso com’era, l’uomo faticava a stare al passo del cane. Risaliva i vicoli chiedendosi in continuazione dove lo stesse portando, e a ogni svolta un sospetto prendeva forma. Sbucato in una piazzetta, si arrestò. Non ci tornava dal giorno del suo ultimo furto e al pensiero il cuore gli si fece gonfio e nero come una seppia. “Io non vengo”, disse. A quel punto Galileo, il cane, abbaiò. “Ssssh!” fece l’uomo con l’indice davanti alla bocca. Altro guaito. “Zitto o ci sente!”

Per evitare quel fracasso l’uomo si convinse a seguire il cane. Avanzò nell’ombra, cauto, incollato al muro e con le movenze leggere di un ragno, fino quando, dietro uno dei tigli che ombreggiavano la piazza, vide comparire il banco del Gracco.

Trattenne il respiro. C’era una strana novità. Alla destra di quel cieco tiranno, leggermente spaesato, con un paio di occhiali dalle lenti fumé, c’era il suo vecchio professore di scienze Galileo Arcetri. Riceveva piccoli ordini e li eseguiva come se anche lui non vedesse bene.    

I Galilei - Puntata n.3

Quando un cieco piange

I libri di antropologia raccontano che nelle società tradizionali della Nuova Guinea, quando due appartenenti a tribù rivali s’incontrano al di fuori dei loro rispettivi villaggi, danno avvio a una lunga discussione per cercare di stabilire se abbiano tra loro qualche parente in comune. Se poi proprio non ne trovano, allora si scannano a vicenda.
Il signor Galileo, diffidente e poco avvezzo alle visite, sospettoso di quella macchia grigiastra che scorgeva attraverso lo spioncino, mise in atto più o meno la stessa tecnica aborigena finché, dopo aver indagato ogni grado di parentela dell’ospite e averne concluso che si trattava di suo figlio, aprì la porta.
“Dov’è finito il tuo ordine, papà?” indagò Bellarmino tagliando la soffitta in due falcate fino a raggiungere la finestra. Ispezionava tutto con un viso da rapace notturno, le pupille aperte come periscopi, evitando di proposito gli occhi del padre. Gli doleva constatare, sugli angoli alle pareti, la capillarità con cui si stavano distribuendo frange di ragnatele tanto spesse da far pensare allo zucchero filato.
“Ultimamente ho avuto poco tempo…” rispose il signor Galileo, ancora immobile nei pressi della porta. Effettivamente in poco tempo la sua soffitta si era ingarbugliata senza che lui se ne fosse ancora accorto.
“Il tuo cane?” chiese Bellarmino riattizzando il colloquio. Ora stava seduto sulla poltrona come un uomo addestrato al potere. Solo ogni tanto quel suo agitare il polso per far scivolare l’orologio un po’ più giù gli restituiva i tratti della persona che un tempo era stata giovane e semplice.
“Non so, non torna da due giorni…” ribatté Galileo con una voce leggermente strozzata ma decisa. “Giovedì abbiamo pranzato, poi lui è uscito e adesso non so.”
Bellarmino passò a una voce del tutto accomodante, eppure più volitiva: “Sarai sereno, spero. Quel cane era insolente. Per non parlare di quello che oggigiorno costa mantenere una bestia.”
“Ma senza di lui faccio fatica a far tutto” spiegò il signor Galileo senza nemmeno accennare a quella cosa tra uomo e animale catalogata sotto la voce “amicizia”.
“A proposito di quello che riesci o non riesci a fare: ho parlato con il medico. Dice che la tua vista è definitivamente compromessa.”
“Ma, è molto che non mi fa visita.”
“Appunto, sono stato da lui ieri. E secondo il suo parere, arrivati a questo punto, la schermatura della retina dovrebbe aver già raggiunto l’ultimo stadio.”
“Beh, insomma… ultimo stadio. Non esageriamo.”
“Quanti sono questi?” reagì fulmineo Bellarmino.
“Quali?”
“Questi!”
Nell’aria sbandierava quattro dita a ventaglio. Non arrivò risposta.
“Bene. A questo punto mi sembra inutile andare oltre” concluse riabbassando la mano con la mimica severa dello scienziato che ha dimostrato senza sforzo la sua teoria.

Quando, tre giorni dopo, il signor Galileo si ritrovò nella stanza 102 di una clinica del centro, non ebbe più alcun dubbio sul perché suo figlio si fosse dimostrato tanto risoluto nel sostenere che non poteva più abitare da solo: l’aveva spedito lì per impossessarsi della sua soffitta e metterla nelle mani della sua società immobiliare, azienda per la quale – Galileo lo ricordava – aveva fatto anche da garante al tempo in cui il ragazzo doveva “farsi”.
Bellarmino aveva fatto trasferire poca cosa dei suoi effetti personali: mancavano tutti i libri, la pipa e le riviste scientifiche che aveva catalogato con laboriosità proprio negli ultimi mesi. Gli eventi avevano colto il signor Galileo non tanto con la furia della tempesta quanto con il morbo della bonaccia: l’avevano reso inerte, incapace di organizzare reazioni. Così l’unica cosa che fece una volta ambientatosi nel nuovo ambiente fu cambiare le federe del cuscino con le proprie portate da casa. Lontano dalla sua soffitta, il solo posto che riusciva a vedere anche senza i suoi occhi, sembrava fosse caduto anzitempo nel pieno della sua prossima cecità. E di questo gemeva tra sé e sé.
“Porti sempre con sé quel telecomando. Il tasto centrale chiama l’infermiera” disse una voce ruvida che proveniva dalla porta.
“Buongiorno” si affrettò a replicare Galileo voltandosi in quella direzione.
“Sto nella stanza accanto” proseguì l’uomo come se non avesse sentito il saluto. “Ormai qui sono di casa, perciò se ha bisogno di favori o cose del genere, chieda a me. Qualcosa le costerà, ma poco…”
“Capisco. Beh, signore, ne terrò conto.” Galileo, nella penombra, distingueva appena una figura bassa e magra, con quello che sembrava un bastone.
“Mi pare di intuire che siamo qui per lo stesso motivo” riattaccò lo sconosciuto.
“Se è vero quello che dice, non mi capacito di come possa rendersene conto…” fece Galileo, stupito.
“Fiuto” disse, “Sono un cieco e il mio mondo è pallido quando un cieco piange…” recitò poi con la voce grossa.
“Come?”
“Nulla, parole di altri. Si chiamano Deep Purple.”
Tre minuti dopo Galileo era nella stanza 103, quella a fianco, ad ascoltare le parole di una canzone rock da un disco che il suo corridoio vicino di camere aveva presentato come una prima stampa sì, ma polacca, per cui di scarso valore. Aveva anche raccontato che risiedeva nella pensione da ormai cinque anni, un lusso pagato interamente con l’eredità di una zia, ma che durante il giorno usciva per occuparsi di questioni molto importanti.
“Dalla nascita?” osò chiedere il signor Galileo ora che si sentiva un po’ più in confidenza. “Voglio dire… la vista…”
“Sì. Lei sembra uno nuovo, invece. Pesta ancora contro parecchi spigoli…”
“Ha ragione. Diciamo ipovedente
. Per adesso, luci e ombre rimangono.”
Un abbaiare canino proveniente dalla strada destò l’attenzione dei due. Il cieco, con tutta la sua esperienza, guidò il quasi-cieco sul balconcino della stanza. Le loro pelli si scaldarono con i raggi del sole e Galileo abbassò lo sguardo senza riconoscere nessuna forma.
“Galileo, sei tu?” gridò a voce alta l’uomo.
Quando Galileo, il cane, riconobbe il volto del Gracco a fianco di quello del padrone capì che le cose erano notevolmente cambiate nei giorni in cui era stato lontano.
“Dev’essere il mio cane! Mancava da un po’…” disse Galileo, l’uomo, preso da un’istantanea euforia.

“Quest’odore non mi è nuovo” ribatté il Gracco scuotendo le narici come un golden retriever.  

I Galilei - Puntata n.2

Inafferrabile

“… capite???”
L’uomo che parlava senza virgole concludeva così la sua requisitoria davanti a una frotta di gabbiani dal becco mandarino. Loro, impegnati com’erano a piluccare un tozzo di pane vicino alla bitta n. 66, non avevano dato molto retta ai quei discorsi sul furto di vecchi vinili.
Così lui, per la strada, cercò di concentrarsi sulle sue mani. Le dita dell’uomo senza virgole infatti, se lasciate andare tremavano sempre, e tenerle a bada costava ogni volta sudore. Era febbraio, era giovedì, era mezzogiorno, aveva appena finito di alzare certi giganteschi container con la sua gru a cavaliere e si preparava a scegliere con cura. Avrebbe evitato da subito rock e disco music, troppo centrali, si sarebbe portato verso i più laterali jazz e folklore; poi, nell’attesa che i clienti intorno si facessero almeno in quattro o cinque, avrebbe iniziato ad abbassare la lampo della tuta preparando la pescata.
Alzò lo sguardo. In quella striscia di cielo sopra il vicolo, il sole dormiva dietro un foglio di grigie nubi, come in un lutto.
Abbassò lo sguardo. Nel vicolo c’erano mani e si muovevano, accendevano sigarette, impastavano paste di pane, accarezzavano gatti, reggevano bicchieri, indicavano altre mani, ovunque. L’uomo senza virgole guardò le sue: larghe e tozze con i pollici smodati e quasi deformi, un taglio profondo sulla nocca dell’indice e uno su quella del medio, tracce di grasso che rendevano nera ogni linea del palmo.
Ed ecco là una mano alzata, ricoperta da troppa bigiotteria, il Gracco che ordinava da bere con un cenno teatrale al ragazzo del bar. Il Gracco era il venditore ambulante di dischi, un mastino che controllava il territorio con i movimenti lenti di un condor andino, senza vedere nulla (era cieco dalla nascita) ma captando tutto, odorando il ladruncolo già all’imbocco del vicolo, avvertendo le vibrazioni dello scippatore con un istante di anticipo sulla sua fuga. In tanti anni l’uomo senza virgole era stato l’unico in grado di eludere un tale sistema di sicurezza.
Ora allontanò con un brivido il pensiero, nuovo di zecca, che qualcosa sarebbe potuto andare storto. Quando, con i movimenti di un gatto, appoggiò la mano destra sulla pila orizzontale di dischi, il nemico lo incrociò con i suoi occhiali da sole scuri. Un refolo d’aria mosse una lattina e le campane suonarono. Subito, come nei piani, cercò la B di “be bop” e le si mise di fronte. Dalla “classica”, un habitué sulla cinquantina fanatico di Händel lo incoraggiò con un “Vai e vinci per tutti noi”, detto con gli occhi.
La situazione: appena due clienti, di cui uno impegnato a discutere col nemico sull’anno di stampa di un classico blues. L’uomo senza virgole pensò che tutto sommato aveva portato a casa in condizioni ben peggiori.

Galileo, il cane, non si era dimenticato dell’appuntamento e aveva corso più forte che poteva. Erano mesi che non superava la strada trafficata e si spingeva verso il centro. Quando arrivò sulla via vide la scena da lontano, all’altezza del gioielliere: il Gracco aveva appena tirato una scudisciata sulle mani dell’uomo senza virgole e un istante dopo aveva lanciato il suo grido d’allarme. Due delle sue guardie si erano alzate dai tavolini del bar, altre due erano sbucate dalle verze e dai carciofi del fruttivendolo, e in pochi istanti ogni via di fuga era bloccata.
Si diede una spinta decisa sulle zampe posteriori e in un balzo addentò il bordo di un cartone di vecchi 45 giri. La baraonda aumentò. Il Gracco cacciò un altro urlo agitando nel vuoto lo scudiscio. Gli sgherri si lanciarono contro il nuovo bersaglio, e l’uomo senza virgole se la diede a gambe. Poi finì tutto molto in fretta: il cane mollò l’osso e gli uomini si quietarono, limitandosi a qualche insulto in senso lato contro ogni essere vivente dotato di quattro zampe. Galileo si dileguò al trotto per un vicolo che puntava al mare, mentre il Gracco cominciò a dare disposizioni su come riassettare il suo bazar con il respiro affannato di un Papa appena scampato a una congiura. La situazione tornò quasi calma.

Quando si svegliò, l’uomo senza virgole era sdraiato sul divano e aveva i piedi intirizziti. Tornò su quanto era accaduto. La corsa, la folla, il rientro a casa, il sonno spesso in cui era inciampato già sulla porta d’ingresso. Si mise seduto. Fuori dalla finestra vide gocce d’acqua che cadevano dall’alto. La casa era fredda. E l’uomo provò l’imbarazzo di una solitudine impotente e destinata. Pensò al cane Galileo, e si chiese dov’era, se erano vivi lui e quei dischi foschi e corvini come gli occhi del Gracco. Non avrebbe più rubato, decise. Però gli rimaneva un’ultima caramella da scartare, il disco che nella confusione gli si era appiccicato sotto la salopette e che lui aveva stretto per tutto il tempo della fuga per paura che cadesse o scomparisse.
Solo dentro quattro mura maculate di umidità, mentre le prime note dell’ultima refurtiva si aggrappavano come mollette allo stendino del pentagramma, l’uomo senza virgole (che nella nostra storia, per ora, è anche senza un nome) pensò al suo bisogno patologico di musica sempre nuova.
“Questo non è be bop…” concluse subito.

Infatti. Charles Mingus suonava con la sua orchestra e senza dire una parola in nove minuti si dimostrò convincente sul fatto che no, il suo non era semplice be bop. Era l’inafferrabile.

I Galilei - Puntata n.1

Saudade.

La finestra, appesa alla grondaia come un lenzuolo fosforescente nel buio della sera, non aveva mai avuto una tenda. Nemmeno uno straccio appeso, neppure un pizzo rubato al tavolino di cristallo. La porta era sempre aperta per la luna, talvolta era color del rame e Galileo, il cane, le faceva la guardia da sotto il comò; altre volte rimaneva tanto oscura da perderla di vista e Galileo, l’uomo, la cercava.
In salita Sant’Agostino la luna tornava appena poteva, ogni volta che qualche marinaio appena sbarcato soffiava via insieme al fumo delle sue nazionali le poche nuvole ormai sfilacciate che avevano scollinato giù per i monti.
Quella sera spuntò dalle tegole del quattro piani di fronte e pensò di appoggiare i primi raggi sull’ultima lettera arrivata a casa. L’ufficio Inps comunicava a Galileo, l’uomo, che la sua pensione d’invalidità dal mese successivo si sarebbe ridotta di dodicimila lire.
Si innervosiva difficilmente, il signor Galileo. Preferiva gestire tutto con la massima tranquillità. Avere le cose sotto controllo lo rilassava. I primi tempi li aveva passati a mappare ogni centimetro della sua mansarda, e ora che ne conosceva alla perfezione ogni angolo, persino le pieghe del copri divano, poteva dirsi un quasi-cieco soddisfatto. Sapeva il mondo a memoria. Ogni cosa, nei trenta metri quadrati, gli era perfettamente distinguibile. Dal giorno dell’incidente, in quel mese che la vista gli era crollata al ritmo spietato di mezzo decimo al giorno, il signor Galileo si era lasciato andare a un training preparatorio dei più inflessibili. Aveva imparato a riconoscere le coperte dalla trama della lana, a leggere le lettere con la lente d’ingrandimento, a fare il bucato e a battere il pesto senza rompere i pinoli. Una dedizione totale che lo aveva portato fuori di casa solo in rarissime occasioni, indispensabili per la sopravvivenza sua e di Galileo, il cane.
Il signor Galileo tornò a sedersi. Strinse con entrambe le mani la tazza verde con l’infuso al carciofo e reclinò il collo leggermente all’indietro.
“Tornerai a trovarmi anche quando non ti potrò più vedere?” domandò al satellite che ora s’era scoperto quasi tutto e allargava il Mare della Tranquillità in un sorriso accennato, una sagoma grigio scura sul volto giallo opalino, annuendo.
Il signor Galileo pensava al termine sempre più spesso
Allo scoccare delle dieci si ridestò da questi tristi pensieri, si alzò e si diresse verso la porta. Galileo, il cane, lo seguì. Dal mobiletto estrasse una busta bianca.
“Scendendo metti questa sullo zerbino della signorina Venì, sono i soldi della spesa di ieri” disse al compagno aprendo e facendolo uscire. La signora Ada Venì comprava sempre qualcosa al supermercato anche per loro. Lo faceva in maniera tanto gentile, tuttavia si atteneva sempre alle sue abitudini: buste di semolino, alici marinate, filo interdentale, cotton-fioc della peggior marca, acqua leggermente frizzante (per lei che aveva problemi di aerofagia) e talvolta persino dei pacchetti di salva slip ruvidi come carta vetrata che il signor Galileo, non sapendo come smaltire, usava per grattarsi le scapole.
Attese mezzo minuto. Quando sentì abbaiare pigiò sul tasto nero del citofono e aprì il portone.

“Ciao Galileo, bello…”
Nella penombra rosseggiava il pallino della super-slim di Violante, il trans. Galileo le dedicò uno sguardo da vecchio compagno di scuola, poi imboccò il sottopassaggio, annusò i copertoni di una bicicletta appoggiata al muro e puntò il muso tra le inferriate di una finestrella illuminata. Un uomo stava seduto sul water a pantaloni abbassati e faceva i suoi bisogni mentre si preoccupava di versare qualche goccia d’acqua in un vasino di primule.
“Galileo cagnone era ora!” disse non appena si accorse di lui. 
Galileo lo salutò sottovoce.
“Stasera inizio prima non ho molto tempo vieni dai che ti apro.” L’uomo parlava senza virgole.
Il cane rimase a osservarlo mentre strisciava un foglio di giornale per pulirsi, tirava lo sciacquone e si riallacciava la salopette blu da lavoro. Poi quando la luce del bagno si spense trottò verso il portoncino di legno e aspettò con la lingua di fuori.
“Eccoci su entra” disse l’uomo che parlava senza virgole dopo aver tolto due mani alla serratura. “Oggi mi sono alzato un po’ prima e ho approfittato per fare un po’ di ordine visto?”
Abitava in un monolocale nel seminterrato di una vecchia palazzina senza intonaco.
“Sei fortunato stasera. (L’uomo parlava senza virgole ma ogni tanto respirava e quindi si concedeva un punto). Ne ho preso uno senza pacchetto così nudo ma è buono suona bene.”
Galileo seguì l’uomo mentre afferrava la coda elettrica del giradischi e la infilava, pieno di solennità, nella presa a muro.
“Fado di Lisbona. Guitarra portuguésa.”
Il disco suonò. E quando fu silenzio il cane e l’uomo piangevano saudade.
“Proprio stasera che mi arriva un cargo da Hong Kong non ci voleva questo cuore gonfio… (pausa lunga, i tre puntini) Per i grossi arrivi dall’oriente abbiamo bisogno d’altro settimana prossima se vieni peschiamo del be bop! (esclamativo di risolutezza)”
Già aveva le chiavi in mano e una manica della giubba infilata, l’uomo, quando dava sfogo a queste sue considerazioni.
S’era fatto tardi.

Era triste il signor Galileo, uomo accorto e parsimonioso, convinto che intelligenza e tirchieria non potevano convivere nell’animo di una persona che s’era posta la difficile sfida della saggezza. Si vergognava d’aver congetturato tutta sera sopra quelle dodicimila lire, scordandosi così del suo cane di nuovo in ritardo come ormai ogni giovedì da un anno e mezzo a quella parte.

Di colpo dal vicolo abbaiarono. E Galileo aprì a Galileo.