Ho visto i Palù

"Sono luoghi freddi, vergini, che / allontanano / la mano dell'uomo"- dice un uomo / triste; eppure egli è assorto, assunto in essi."
(Andrea Zanzotto, Verso i Palù, vv. 1-4)

"I Palù sono proprio palù" mi dice un uomo alla Locanda Toronto. Sono a Moriago della Battaglia, Treviso, sotto una pergola. Mangio pane prosciutto e soppressa. Bevo vino bianco frizzante che fanno qui, un paese avanti, a Valdobbiadene. A nord, ma vicine, si vedono le montagne, alcune portano l'ultima neve, hanno un berretto di nuvole che sembra stare lì da sempre per farle un po' più paurose, tanto sono belle. Mi torna in mente anche la bellezza della solitudine, quando tutto pare accogliente, splendido, tattile. La temperatura, il sole, l'aria, gli uomini di paese che discutono usando il dialetto. Sa tutto di pericolo scampato, di possibilità, di respiro, di stare bene quando solo si è.
"Non ti conviene andarci, è smesso di piovere da appena due giorni" ripete l'uomo. Non gli do ascolto.

Intrecci d'acque e desideri / d'arborescenze pure, / dòmino di misteri / cadenti consecutivamente in se stessi / attirati nel folto del finire / senza fine, senza fine avventure. (vv. 5-10)

I Palù. Sono campi di terreno argilloso, alcuni coltivati, altri no. Un mosaico di terra e di acqua. La gente li chiama anche Val Bone, e i bimbi qui sanno che nascono i fauni, le ninfe, gli spiriti della nebbia, il richiamo della natura.
Guado il piccolo fiume, sono al di là del mondo. Farnia, salice, ontano. Alto, medio, basso fusto. I monaci che li hanno piantati secoli fa sapevano come guidare e indirizzare l'aria, conoscevano la ricetta degli elementi.
Poi le rogge, i fontanili. Ad alta voce chiedo

"Pan, dove sei?" (v. 29)

Una volpe attraversa correndo l'orizzonte, è un fulmine, blocca il respiro a vederla. Cammino senza un sentiero, un passo foglie secche, un passo fango, un altro erba, un altro ancora fango. Il peso che affonda e riaffonda.
Due uccelli volteggiano lenti, sono nibbi, oppure piccoli falchi, altrimenti poiane. Cercano qualcosa da mangiare trenta, quaranta metri più in basso. Chissà se vedono anche me, se mi hanno già squadrato, se sanno che sono un uomo, una cosa troppo grande e dura da mangiare. 
L'erba e le margherite gialle, un campo dissodato in mille mucchi di terra umida con i suoi picchi, i sassi, sembra un recinto di paesaggio lunare.

Proteggi dall'astuzia soave dei tralci / dissufla dall'ordine denso delle biade / delle loro verdissime spade / in cui si taglia e s'intaglia l'estate. (vv. 41-44)

L'uomo, le case, i rumori metallici sembrano non dover tornare più, andando avanti, seguendo questa pianura incontro ai monti. Invece ci sono colpi d'ascia. Una famiglia sta tagliando la legna, fanno la scorta per il prossimo inverno. Una cucciola di cane da caccia mi viene incontro, il padrone la richiama, ha l'accento dell'est. 

Torno al mulino, tolgo le scarpe, attraverso l'acqua con i piedi nudi e freddi. Un bambino getta pietre nel fiume guardato dalla nonna, seduta sopra una roccia. Parlano una lingua che pare straniera.

Ardui cammini del verde / sul filo di infinite inesistenze - / un ultimo raggio li perseguita. (vv. 53-55)

Cerco la Piave. Al femminile, come dicono qui. Isola dei Morti. Il monumento ai caduti, due cannoni, la bandiera italiana. Cammino.
Il pino nero, il pino silvestre, le anse. Il pensiero di un elmo, di una canna di fucile, una mano che spunta dalla rena. Oltre il fiume c'è il Montello, la collina delle strade tortuose. Voci, famiglie a passeggio, bimbi in bicicletta. 
Mi metto orizzontale e dormo cullato dalle voci dei vecchi che giocano a bocce. Da bambini si dormiva tranquilli ovunque ci fosse una voce di adulto, lontana e vicina, sicura. 
Riparto verso Treviso. A Fontanigo due squadre di ragazzini giocano al tamburello. Guardo, seduto tra i genitori. Sono uno di tanti.