Provviste #22 - Gianfranco De Franco

Prima ancora di spulciare il suo lungo curriculum di musicista, interprete, compositore, musicoterapeuta e più in generale di "sonorizzatore" del mondo, occorrerebbe fermarsi e parlare dell'audacia di Gianfranco De Franco. 

L'audacia di pensare a un disco, oggetto semisconosciuto sempre più vittima del web e dei nuovi metodi di fruizione musicale.
L'audacia di pensare a un disco con tempi e modalità completamente affrancate dalle logiche commerciali (s'è preso almeno tre anni, e non mi pare poco).
L'audacia di pensare a un disco con tempi e modalità completamente affrancate dalle logiche commerciali e di metterci dentro una musica dalla difficile definizione stilistica ma che risponde a un senso di EFFICACIA (cos'è l'efficacia? Credo pensare qualcosa che risponda esattamente a ciò di cui hai bisogno tu come artista per esprimerti e contemporaneamente a ciò di cui ha bisogno chi ascolta per dire: ecco, così deve suonare).
L'audacia di pensare a un disco con tempi e modalità completamente affrancate dalle logiche commerciali e di metterci dentro una musica dalla difficile definizione stilistica ma che risponde a un senso di EFFICACIA e, questo disco, realizzarlo.

IMAGO è un'esperienza sonora che mi ha lasciato stupefatto. Conoscevo già da tempo alcuni brani nella loro versione originale: Gianfranco intrecciava tutti i suoni di cui lui e i suoi strumenti sono capaci. Ma il prodotto finale è molto di più. 

Dopo efficacia voglio spendere un'altra parola: questo disco ha SENSO. Perché diciamoci la verità: la sperimentazione è bella, è alternativa, fa figo, fa happening, fa situazione in divenire, eccetera eccetara ma poi alla fine è spesso inascoltabile. Gianfranco De Franco invece usa le armi della progettazione, della professionalità, del gusto e della capacità compositiva per regalarci qualcosa di poetico e narrativo al tempo stesso, una specie di colonna sonora che non riempie semplicemente il silenzio della nostra stanza, ma lo rimodella e ce lo racconta. Terza e ultima parole: è BELLO (dove per bello intendo il bello musicale, cioè ha ritmo, senso della misura, armonia, richiama e dice cose nuove al tempo stesso).

Mi rivolgo anche a chi non è abituato ad ascoltare musica strumentale: provateci. Immaginatevi altrove, in altri panni, con altri pensieri. E' un esperimento che vi potrebbe riuscire.




An orange exodus

"An orange exodus" è una breve serie di fotografie scattate il 3 luglio 2016 presso il Santuario di Santa Maria del Giogo nel comune di Sulzano (Brescia). Ritraggono l'opera "The floating piers" dell'artista Christo.

Ho rinunciato alla calca per osservare dall'alto, in silenzio. Mi è sembrato di osservare un esodo muto: non sono in grado di dire se pacifico o meno. A quell'ora del pomeriggio, in quel punto preciso rivolto a ovest, una sola cosa ha invaso me e l'obiettivo della mia macchina: la luce. Ho scelto di colorare quella luce con lo stesso arancio con cui l'artista bulgaro Christo ha colorato le sue passerelle, in modo che tutto si confondesse in un travaso di land-art.





Un esodo verso dove e da dove? Un esodo per quale motivo?

Una guerra contro il tempo

Ovviamente tutti abbiamo in mente l'inizio dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni: "Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno..." e via così. Ma quello non è mica l'inizio. Sono solo le prime righe del primo capitolo. Prima c'è l'introduzione: sono tre paginette di cui tutti ci dimentichiamo volentieri anche perché, come vedremo fra poco, attaccano molto meno poeticamente e con parole ben più difficili rispetto all'incipit che abbiamo malvolentieri imparato a scuola. Questa introduzione però ha una sua utilità, ossia serve sostanzialmente a due cose: da una parte permette a Manzoni di creare il famoso gioco del manoscritto (vi ricordate? Manzoni dice di non essere l'autore del racconto di Renzo e Lucia ma solo colui che, ritrovato un vecchio manoscritto del '600, decide di riscrivere la storia che esso contiene utilizzando un linguaggio più comprensibile), dall'altra presenta delle considerazioni dell'autore riguardo alla Storia (quella con la S maiuscola appunto) tutt'altro che banali.
Il finto manoscritto, che Manzoni avrebbe ritrovato chissà dove, inizia così (faccio una parafrasi al volo visto che l'orginale, ovviamente, è in un difficile italiano secentesco):

"La Storia si può definire un'importante guerra contro il tempo, perché sottraendogli gli anni che sono ormai suoi prigionieri, già morti li richiama in vita, li passa in rassegna e li schiera di nuovo in battaglia. Ma gli storici che in tale lotta raccolgono grandi successi e gloria, tolgono al tempo soltanto i bottini più ricchi, perché raccontano e ricordano con i loro scritti solamente le imprese dei Principi, dei potenti, dei personaggi più illustri... "

Pensavo a queste righe una domenica di fine giugno mentre me ne stavo seduto con la macchina fotografica al collo sul sagrato di una piccola chiesa di paese, non un capolavoro architettonico, anonima, ma dall'aspetto famigliare. Era la chiesetta di Tornavento, una frazione del comune lombardo di Lonate Pozzolo (Varese), a due passi dallo scalo internazionale di Malpensa. Di lì a poco avrebbero fatto la loro irruzione nella piazzetta (splendida, con vista sulla valle del Ticino e sul Monte Rosa) uomini e donne vestiti del '600 con tanto di moschetti, spade, picche e persino cannoni. Aveva così inizio la XX edizione della rievocazione storica della battaglia di Tornavento. 
Perché pensavo alle parole del Manzoni? Non tanto perché i figuranti che comparivano in piazza erano su per giù vestiti come i personaggi del suo romanzo, ma perché mi ero messo a ragionare su che senso abbiano queste rievocazioni storiche. 
Premessa: il 22 giugno 1636 nei pressi di questo piccolo borgo avvenne una battaglia tra francesi e spagnoli, all'epoca impegnati nella guerra dei trent'anni (esatto, la stessa che si cita nei Promessi). Fu una battaglia piuttosto sanguinosa, ma sinceramente viene difficile considerarla un episodio di vitale importanza nella storia italiana ed europea. Eppure da vent'anni qualcuno spende del tempo e del denaro per rievocarlo. Perché? Ci potrebbero essere mille perché, ma a me cinicamente ne viene in mente per primo uno: perché, se non fosse per questa battaglia, Tornavento resterebbe nascosto nell'anonimato più totale. C'è qualcosa si sbagliato in questo? Assolutamente no, anzi. E' sempre questione di prospettive: per il piccolo (paese), il piccolo (episodio storico) è qualcosa di grande che lo aiuta a sentirsi meno piccolo. Quella domenica, la guerra contro il tempo si è ripetuta: gli anni già morti vengono passati in rassegna e schierati di nuovo in battaglia. Ma non è vero che al tempo si tolgono solo i bottini più ricchi: c'è chi ha bisogno del bottino più povero per sentirsi (giustamente) importante.
 















Un sacro disordine

Targu Neamt, regione della Moldavia, nord est della Romania. E' un inizio d'anno gelido, il cielo è quasi sempre coperto, la luce dura poche ore. Da Bucarest sono risalito fino alla città di Iasi per ritrovare una persona che non vedevo da quando ero piccolo. L'ho trovata, come se il tempo non fosse passato per nulla. Insieme abbiamo mangiato una fetta di panettone e ci siamo parlati a lungo mentre fuori dalla finestra, lontano a ovest, il manto di nubi finiva  e il cielo accennava un tramonto. 
Sulla strada del ritorno un cartello segnala un monastero. Ci sono cartelli così in tutta la Romania: è probabile siano sorti più monasteri qui che in tutto il resto dell'est Europa. Quello di Targu Neamt non è certamente il più bello: giorni prima, nella regione della Bucovina al confine con l'Ucraina, Voronet si è presentato ai miei occhi come una meraviglia che forse non sarò mai in grado di spiegare. A Targu Neamt, però, mi sono imbattutto in un posto davvero bizzarro.
La struttura del monastero rispetta la tradizione: forti mura perimetrali, un grande spiazzo interno con al centro l'antica chiesa le cui pareti interne non hanno un centimetro di intonaco che non sia affrescato. Monaci con lunghi e pesanti soprabiti neri escono dalle loro stanze, attraversano lo spiazzo bianco di neve e ci si infilano dentro. I suoni sono ovattati: scarponi che scricchiolano sulla neve fresca, cani in lontananza, una mamma che sgrida una bambina. Tante famiglie approfittano delle vacanze di Natale per visitare i luoghi di una fede che in Romania resta, al contrario che altrove, forte e salda.
La sorpresa per me arriva una volta uscito dal monastero. Nel piazzale esterno, oltre le poche auto parcheggiate, c'è una struttura circolare con un'alta cupola sovrastante. Parrebbe un battistero o una cose dal genere, invece da lontano, sopra la porta d'ingresso, leggo la scritta "libreria". Quando entro non ci voglio credere. Sotto una volta finemente affrescata c'è tutto. Ossia: tutto. Un bazar in piena regola, senza il minimo concetto di ordine. Migliaia di libri accatastati, icone, crocifissi ma anche cassette di frutta e verdura, martelli, caramelle, un frigorifero con i gelati, quadri, pacchetti di patatine, rullini fotografici, bibite, scarpe, attrezzi da lavoro. Torno a guardare il soffitto per qualche secondo, poi riabbasso gli occhi: è ancora tutto lì. Un prete barbuto e con indosso un maglione liso si aggira in questo marasma con la stessa compostezza di un custode del Louvre. Cerco di toccare tutto, pesco libri a caso: biografie di monaci, spiritualità, storia nazionale. Più in là: paramenti sacri e abiti comuni. Me ne vado senza la minima idea del luogo e della sua funzione. Una cosa è certa: quelle figure angeliche in alto, quel casino in basso, una metafora del cosmo di cui ho trattenuto un vago senso di sacro.





People from Baku

Marzo 2015. 

Baku è nei giorni del Novruz, l'antico capodanno persiano in cui si festeggia l'arrivo della primavera. Le scuole sono chiuse, la gente si trasferisce in centro per festeggiare. La notte qualche fuoco si accende attorno alle mura della città vecchia e i giovani ballano in cerchio con rapidi passi dei piedi. Baku è una città divisa tra tradizione e voglia di modernità, di Europa, di Occidente. Il vetro e l'acciaio delle costruzioni più recenti si unisce alla pietra della città vecchia, dichiarata patrimonio dell'umanità dall'Unesco. 

Nei miei 4 giorni in Azerbaijan ho avuto la sensazione di un Paese costretto a nascondersi, obbligato a mostrare solo il lato migliore di sé, fatto di gente semplice dal sorriso appena accennato. Un Paese di frontiera (qui da sempre occidente e oriente si incontrano) in un periodo della sua storia decisivo per dettarne il futuro.


Baku, panorama

Una famiglia si gode un giro sopra la discutibile riproduzione di una gondola veneziana

Baku, ritratto

Baku, ritratto

L'artista Farid Rasulov nel suo studio

Baku, Città vecchia

Baku, Città vecchia

Baku, una giovane danzatrice in abiti tradizionali

Baku, venditore ambulante

Baku, una compagnia di ballo si esibisce sul palco della festa di Novruz

Baku, pubblico davanti al palco della festa di Novruz
Baku, festa di Novruz

Baku, ritratto

Baku, Heydar Aliyev Centre


Provviste #24 - Lettera del Vampiro (alla Vamp)



Da quando è uscito lo scorso 25 novembre (e non è un caso, visto che in quella data si celebra la giornata mondiale controla la violenza sulle donne), il video di Marcondiro, artista e cantautore romano di finezza ed esperienza, ha fatto parlare di sé. Lettera del Vampiro (alla Vamp), brano che anticipa l'uscita del suo prossimo disco, è a tutti gli effetti e per stessa ammissione dell'autore, "un'ironica invettiva contro la misoginia". Del suo ritornello - "Se ti viene voglia di amare qualcuno, uccidilo: è il tuo vampiro" - si è già chiarita altrove la valenza metaforica, ironica e volutamente irriverente (per esempio su L'Huffington Post).
Quello che non dovrebbe passare inosservato è però il valore culturale dell'operazione svolta da Marcondiro. Riprendere una vecchia lettera di Antonin Artoud e trasformarla in canzone non è una cosa da poco. Soprattutto perché significa scommettere su uno dei geni artistici più oscuri ed enigmatici del '900.

Attore, commediografo, regista e scrittore, Artaud fu maestro di quello che ancora oggi viene definito "Teatro della crudeltà", dove per crudeltà non si intende dolore o violenza ma catarsi. Per poter giungere ad essa è necessario ricorrere a tutto ciò che possa disturbare la sensibilità dello spettatore, provocando in lui una sensazione acuta di disagio interiore. Disagio che abitò in Artaud fin dalla gioventù: vittima da bambino di una meningite, ebbe seri problemi neurologici che lo portarono poi, tra le altre cose, alla dipendenza da droghe e alcol. Nel febbraio 1945, a Rodez, nell’Istituto Psichiatrico in cui era ospite da circa due anni, Antonin Artaud comincia a riempire dei quaderni «di appunti sulla letteratura, la poesia, la psicologia, la fisiologia, la magia, la magia soprattutto», quasi senza interruzione, fino alla morte, ad Ivry-sur-Seine, il 4 marzo 1948. La sua vita era stata segnata da otto anni d’internamento coatto, una cinquantina di elettroshock, “succubi e supplizi” d’ogni tipo e dalle tappe di un delirio sempre piú intenso.

In un'esistenza del genere, quale spazio per l'amore? Quale voce dare a ciò che potrebbe rivelarsi fonte di altre sofferenze?
In una delle sue lettere Artaud dichiara di volersi tenere alla larga dalla passione travolgente, da quel sentimento "forte e incontrollato" di fronte al quale teme di essere ancora vittima. Meglio immaginare un rapporto di coppia statico, che non mini la tranquillità del quotidiano: è il compromesso di un Amore-materasso sopra cui adagiarsi e sotto cui nascondere velleità e chimere. Ma è così - rinunciando alla sua forma più pura e ardente - che l'amore si trasforma in terreno di violenza e alienazione.

Marcondiro traduce tutto in chiave contemporanea: al centro del suo video compare una coppia fiacca e insofferente, dove lui, pigro ed irriverente, preferisce guardare film pornografici piuttosto che dare attenzioni a lei che lo stuzzica e lo provoca senza successo. E' la fiera della vacuità, dell'anti-amore che diverte e ammicca (l'arrangiamento moderno e un'estetica vintage sono a tal proposito più che funzionali, ma vero linguaggio nel linguaggio). E il Vampiro da uccidere? Il Vampiro è metafora di ciò che impedisce il sentimento vero: quella parte di noi che non vuole cambiare né tendere verso l'altro, così come l'altro quando si approfitta di noi per soddisfare il proprio ego.

Nessuna violenza vera, ovviamente. Solo ricerca di significati e sperimentazione di un nuovo linguaggio. Quel linguaggio che Artaud ha indagato così insistentemente da rimetterci la vita: un linguaggio assoluto, sganciato, folle, nuovo, catartico. Il linguaggio di una lettera d'amore scritta e buttata infinite volte.


Il sito dell'artista: www.marcondiro.it