Mostar est, dicembre 2014.
Camminiamo in una Brace Fejica semi deserta. Sono gli ultimi giorni dell’anno, qualche donna esce da un supermercato e corre a casa con il pandoro e una bottiglia da tenere in fresco fuori dal davanzale. E’ buio, le insegne dei bar e di qualche cevabdzinica illuminano i marciapiedi mentre il minareto della moschea del centro s’accende come un faro sulle acque gelide della Neretva. Poco più in là, oltre le nostre spalle, se ne sta solitario sulla sua schiena d’asino il ponte Stari Most, emblema di una guerra che da queste parti non ha smesso di lasciare tracce. Lo hanno fatto saltare le truppe croato-bosniache la mattina del 9 novembre 1993 dopo che per oltre 400 anni era stato il simbolo di una città in cui etnie e religioni erano riuscite nel difficile esercizio della convivenza. E’ di nuovo al suo posto dal 2004, in estate i giovani sono tornati a tuffarsi e a gironzolare tra negozi di souvenir. Ma in questa stagione le serrande restano abbassate, d’inverno per i turisti qui non c’è granché.
Si sentono colpi da lontano, qualche ragazzino ha iniziato in anticipo con i petardi. “Cosa ci facciamo qui?” chiedo a Marco. Lui ride, a sua volta si starà chiedendo cosa diavolo lo ha spinto a seguirmi in mezzo a tutto questo grigiore che adesso minaccia pioggia o forse neve. “Fumiamoci sopra” rispondo.
Ma l’accendino, come al solito, è rimasto in macchina.
Qualcuno mi sorpassa, con la coda dell’occhio scorgo un paio di scarpe da ginnastica arancioni. Poi, dietro a una fiammella accesa, un paio di occhi azzurrissimi. “Upaljac” dice il ragazzo. “In bosniaco. Accendino: upaljac”. Parla un italiano scorretto ma comprensibile, porta un berretto di lana e un giubbino leggero, la barba di qualche giorno e le guance butterate.
Ringrazio. Dopo il mio primo tiro, ne accende una anche lui. Ha l’aria di uno che non vuole andarsene. Vorrà dei soldi, noi italiani siamo prede fin troppo facili. “Di dove siete?”. Milano, rispondo. Vicino Milano, ribatte Marco. “Volete vedere dove tre italiani sono morti e io mi sono beccato una scheggia nella schiena?”
La domanda è così secca e tagliente che la mia testa non ha tempo di pensare una risposta. L’istinto invece ne ha già una. “Sì” dico, “dove?” Un attimo dopo siamo già partiti, tengo il passo a fatica, lo sconosciuto cammina veloce, si è già infilato in un vicolo buio e non asfaltato. Marco invece, per prudenza, procede qualche metro più indietro. Forse l’ho cacciato in un guaio, avrei dovuto lasciar perdere.
Si chiama Ibrahim, si è voltato e me l’ha detto proprio nell’istante in cui entravamo nel cortile tra palazzoni immersi nel buio. Il grande spiazzo centrale è un parcheggio di terra umida. Ci sono degli alberi e qualche lampione. E’ qui che comincia la sua storia.
“Durante la guerra stavo in quell’appartamento lassù, al terzo piano, a casa di mia zia e mia cugina. Ma la maggior parte della giornata noi bambini la passavamo qui, c’era un rifugio dove trasmettevano quelli di Radio Mostar”. Mi indica una porta di metallo male illuminata. In quei giorni terribili senza più acqua, né corrente, né telefono le radio erano strumento di comunicazione, davano il conto dei vivi e dei morti, mettevano in contatto le persone, suggerivano spostamenti. “Quel giorno eravamo qui fuori nel cortile con tre signori della televisione italiana. E’ arrivata una prima granata. I croati sparavano da nord, sulle colline. Poi una seconda, molto più vicina. Il colpo mi ha spinto in questo pozzetto, è l’ingresso di un bunker. Nella schiena mi è arrivata una grossa scheggia. Mi sono salvato.”
Marco Luchetta era un giornalista triestino della Rai. Con lui, per la Bosnia, erano partiti gli operatori Alessandro Ota e Dario D’Angelo. Dovevano realizzare un reportage per il Tg1 sulle tragiche condizioni dei bambini di Mostar, orfani di guerra oppure abbandonati dalle loro madri perché figli di uno stupro. Erano arrivati a Mostar da Medjugorje su mezzi della Croce Rossa Internazionale, scortati dal contingente spagnolo dei caschi blu. Venerdì 28 gennaio 1994 sono morti mentre intervistavano Zlatko, un altro bambino salvatosi per miracolo.
Una targa li ricorda nell’esatto punto in cui tutto è accaduto. Ibrahim me la indica, è scritta nella doppia lingua. Nella parte in bosniaco alcune lettere sono state cancellate: “Abbiamo insistito perché il sindaco facesse togliere la parola bratoubilacki, che significa fratricida. Non era una guerra fratricida quella, i fratelli non si scannano. Era una guerra civile.” Sono passati vent’anni e le parole pesano ancora come macigni. Non sarà forse il caso di Ibrahim, ma temo che non riconoscere un tuo fratello nel nemico di un tempo possa comportare il non volerlo cercare oggi in chi ti abita a fianco. Le barriere da qualche parte restano: sono sottili, nascoste, per abbatterle non basta ricostruire.
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Mostar, la targa in ricordo dei giornalisti italiani uccisi |
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Un’ora dopo sediamo ai tavolini di un bar di Mostar ovest. Nevica e Ibrahim sorride. Dice che una volta la sua storia l’ha raccontata anche alla televisione italiana, lo intervistava un giornalista molto grasso, famoso. Poco fa invece, in Alekse Santica, ha insistito perché entrassimo con lui dentro a un palazzo sventrato. Le torce dei nostri telefonini che illuminano i corridoi: muri crollati, calcinacci, pareti nere, i sacchi di sabbia alle finestre. Al terzo piano ci abitano ancora, la gente non ha fatto altro che tirare un muro di mattoni a vista e rifarsi un appartamento nella via dove si è combattuto finestra dopo finestra fino all’ultimo bossolo: da una parte i croati dell’HVO, a nemmeno trenta metri i bosniaco-musulmani dell’Armija.
Non lontano, oltre il ponte di Tito, c’è una struttura d’inizio ‘900 ricostruita grazie a fondi italiani. E’ il Gradsko Kupatilo, il bagno pubblico di origine ottomana. Al secondo piano un gruppo di persone aspetta sul pianerottolo. Ibrahim discute a lungo con la signora che nella guardiola gioca a un solitario davanti a un vecchio pc: possono entrare, non possono entrare, il problema sono le nostre scarpe. Poi capiamo il perché: oltre la porta a vetri smerigliati ci investe il tepore di un corridoio avvolto dalla condensa delle docce, il pavimento è bagnato, si sentono degli schiamazzi; infine, svoltato l’angolo, c’è quello che non ti aspetti: una piccola piscina dentro a un salone neoclassico con archi e colonne, le pareti color acquamarina, una cupola dai vetri rossi gialli e verdi. E’ un gioiello. “Vedete?” ripete Ibrahim allegro. Il maestro di nuoto soffia nel fischietto, i bambini si tuffano in acqua e fanno le prime bracciate. Uno di loro riaffiora accanto a noi e si aggrappa al bordo per prendere fiato, mi scorge con indosso la giacca a vento, il cappello di lana e gli scarponi sporchi di fango. “Sorridi” gli dice Ibrahim, “questo signore ti fa una foto per un giornale italiano.” Quando ce ne andiamo la signora interrompe i suoi affari e fa un cenno di saluto: srtna nova godina, buon anno nuovo! Ibrahim qui conosce tutti, lavorava come istruttore di nuoto prima che lo licenziassero. Ora non sa come far mangiare la moglie e i due figli. In Bosnia la disoccupazione sfiora il 40%.
Per ultimo Ibrahim mi regala un pezzo di fumo. “Per la notte” dice. Poi chiede dei soldi come farebbe una guida alla fine del suo tour. Di spalle si allontana, le scarpe da ginnastica arancioni pestano i primi fiocchi di neve.
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Mostar, la mia ombra dentro a un palazzo di via Alekse Santica |
La storia di Ibrahim mi ha fatto compagnia per giorni. Tornato in Italia, mosso da non so cosa, ho contattato la signora Luchetta, vedova di Marco. A convincermi è stata una coincidenza cha sarebbe lungo spiegare e che riguarda una mia vecchia partecipazione a un concorso letterario. Il giorno in cui le ho telefonato (abita a Trieste) mi sono accorto di un’altra coincidenza: la sera prima era andata in onda la prima puntata di uno sceneggiato televisivo ambientato a Sarajevo. Era la storia di un inviato di guerra che riesce a portare in Italia una bambina bosniaca per adottarla.
La signora Daniela però non lo ha visto. Di proposito. “Non voglio farmi del male” mi dice con una voce chiara. “Devo andare avanti, non posso farmi ancora ferire alle spalle”.
Marco, mi spiega, era andato in Bosnia almeno una decina di volte prima di quella. Si era fatto prendere da una febbre. Quando tornava era felice, ma allo stesso tempo iniziava subito a pensare a quando sarebbe potuto ripartire. “Quando conosci davvero cosa significa vivere sotto le bombe, quando vedi con i tuoi occhi i bambini giocare in mezzo alle esplosioni, quando tocchi con mano le tragedie della gente, non riesci a essere più lo stesso. O decidi che non ti interessa nulla, cerchi di liberartene, oppure quella diventa una cosa tua che ti prende i pensieri e non te li molla più. Nemmeno sarei in grado di dire quanto la Bosnia, per Marco, fosse un’urgenza”.
Il fatto all’epoca sconvolse tutta l’Italia. Dopo la seconda guerra mondiale era forse la prima volta che dei giornalisti italiani venivano uccisi in guerra. Per Trieste poi fu una vera tragedia.
“Venimmo a sapere di Zlatko, il bambino ferito dalla granata” racconta ancora la signora Daniela. “Ci dicemmo che dovevamo portarlo al più presto via di lì. Come privati cittadini era quasi impossibile, allora formammo un comitato. Ci mettemmo in contatto con il padre di Zlatko, il quale dopo l’inizio della guerra era emigrato in Svezia. Non fu facile fare tutto, ma poi finalmente il bambino arrivò in Italia con la madre. A quel punto, visto che ci eravamo riusciti con uno, prendemmo fiducia. Così nacque la nostra Associazione. La sede Rai di Napoli ci inviò 50 milioni raccolti tra giornalisti e operatori. La provincia di Trieste fornì in comodato la casa che ancora ospita la sede. Ma la cosa che mi diede più fiducia, all’epoca, fu l’aver ricevuto una telefonata dal sindaco di Mostar. Mi disse: Voglio che voi sappiate che dal momento in cui suo marito e i gli altri giornalisti sono morti, i Croati hanno smesso di bombardarci: l’attenzione del mondo è stata talmente focalizzata su Mostar Est che noi abbiamo smesso di morire. Vede, è questo che dà un senso a tutto quanto”.
La signora Daniela ha evidentemente realizzato cosa significa, nel senso etimologico della parola, il
sacrificio di suo marito: dal latino "fare sacro", dove sacro sta per "inviolabile". La morte di Marco Luchetta e dei due operatori Ota e D’Angelo ha reso inviolabile un pezzo di terra di Bosnia. E la
Fondazione Luchetta-Ota-D’Angelo-Hrovatin continua su quella strada: protegge i bambini, ovvero gli inviolabili per eccellenza.
A questo punto della telefonata le racconto di Mostar e del mio incontro con Ibrahim. Mi dice che non ne sa nulla, non ha mai sentito parlare di un altro bambino presente al momento della tragedia. Consiglia di provare a chiedere a suo figlio Andrea, giornalista a Roma, che in questi anni si è speso più di lei nel tentativo di ricostruire i fatti. Lo contatto via mail, lo trovo disponibile fin da subito, rimaniamo d’accordo per una telefonata di lì a qualche giorno.
Non l’ho mai chiamato.
Ibrahim oggi è mio amico su Facebook, ha compiuto gli anni da poco. Era davvero presente quando quella granata è caduta? Non voglio chiederglielo e non mi importa più granché. Ho tenuto tutto in disparte fino ad oggi. Certe storie se non le finisce l’uomo, le chiude il tempo.
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Mostar, colori sui muri crivellati |