Provviste #22 - Gianfranco De Franco

Prima ancora di spulciare il suo lungo curriculum di musicista, interprete, compositore, musicoterapeuta e più in generale di "sonorizzatore" del mondo, occorrerebbe fermarsi e parlare dell'audacia di Gianfranco De Franco. 

L'audacia di pensare a un disco, oggetto semisconosciuto sempre più vittima del web e dei nuovi metodi di fruizione musicale.
L'audacia di pensare a un disco con tempi e modalità completamente affrancate dalle logiche commerciali (s'è preso almeno tre anni, e non mi pare poco).
L'audacia di pensare a un disco con tempi e modalità completamente affrancate dalle logiche commerciali e di metterci dentro una musica dalla difficile definizione stilistica ma che risponde a un senso di EFFICACIA (cos'è l'efficacia? Credo pensare qualcosa che risponda esattamente a ciò di cui hai bisogno tu come artista per esprimerti e contemporaneamente a ciò di cui ha bisogno chi ascolta per dire: ecco, così deve suonare).
L'audacia di pensare a un disco con tempi e modalità completamente affrancate dalle logiche commerciali e di metterci dentro una musica dalla difficile definizione stilistica ma che risponde a un senso di EFFICACIA e, questo disco, realizzarlo.

IMAGO è un'esperienza sonora che mi ha lasciato stupefatto. Conoscevo già da tempo alcuni brani nella loro versione originale: Gianfranco intrecciava tutti i suoni di cui lui e i suoi strumenti sono capaci. Ma il prodotto finale è molto di più. 

Dopo efficacia voglio spendere un'altra parola: questo disco ha SENSO. Perché diciamoci la verità: la sperimentazione è bella, è alternativa, fa figo, fa happening, fa situazione in divenire, eccetera eccetara ma poi alla fine è spesso inascoltabile. Gianfranco De Franco invece usa le armi della progettazione, della professionalità, del gusto e della capacità compositiva per regalarci qualcosa di poetico e narrativo al tempo stesso, una specie di colonna sonora che non riempie semplicemente il silenzio della nostra stanza, ma lo rimodella e ce lo racconta. Terza e ultima parole: è BELLO (dove per bello intendo il bello musicale, cioè ha ritmo, senso della misura, armonia, richiama e dice cose nuove al tempo stesso).

Mi rivolgo anche a chi non è abituato ad ascoltare musica strumentale: provateci. Immaginatevi altrove, in altri panni, con altri pensieri. E' un esperimento che vi potrebbe riuscire.




An orange exodus

"An orange exodus" è una breve serie di fotografie scattate il 3 luglio 2016 presso il Santuario di Santa Maria del Giogo nel comune di Sulzano (Brescia). Ritraggono l'opera "The floating piers" dell'artista Christo.

Ho rinunciato alla calca per osservare dall'alto, in silenzio. Mi è sembrato di osservare un esodo muto: non sono in grado di dire se pacifico o meno. A quell'ora del pomeriggio, in quel punto preciso rivolto a ovest, una sola cosa ha invaso me e l'obiettivo della mia macchina: la luce. Ho scelto di colorare quella luce con lo stesso arancio con cui l'artista bulgaro Christo ha colorato le sue passerelle, in modo che tutto si confondesse in un travaso di land-art.





Un esodo verso dove e da dove? Un esodo per quale motivo?

Una guerra contro il tempo

Ovviamente tutti abbiamo in mente l'inizio dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni: "Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno..." e via così. Ma quello non è mica l'inizio. Sono solo le prime righe del primo capitolo. Prima c'è l'introduzione: sono tre paginette di cui tutti ci dimentichiamo volentieri anche perché, come vedremo fra poco, attaccano molto meno poeticamente e con parole ben più difficili rispetto all'incipit che abbiamo malvolentieri imparato a scuola. Questa introduzione però ha una sua utilità, ossia serve sostanzialmente a due cose: da una parte permette a Manzoni di creare il famoso gioco del manoscritto (vi ricordate? Manzoni dice di non essere l'autore del racconto di Renzo e Lucia ma solo colui che, ritrovato un vecchio manoscritto del '600, decide di riscrivere la storia che esso contiene utilizzando un linguaggio più comprensibile), dall'altra presenta delle considerazioni dell'autore riguardo alla Storia (quella con la S maiuscola appunto) tutt'altro che banali.
Il finto manoscritto, che Manzoni avrebbe ritrovato chissà dove, inizia così (faccio una parafrasi al volo visto che l'orginale, ovviamente, è in un difficile italiano secentesco):

"La Storia si può definire un'importante guerra contro il tempo, perché sottraendogli gli anni che sono ormai suoi prigionieri, già morti li richiama in vita, li passa in rassegna e li schiera di nuovo in battaglia. Ma gli storici che in tale lotta raccolgono grandi successi e gloria, tolgono al tempo soltanto i bottini più ricchi, perché raccontano e ricordano con i loro scritti solamente le imprese dei Principi, dei potenti, dei personaggi più illustri... "

Pensavo a queste righe una domenica di fine giugno mentre me ne stavo seduto con la macchina fotografica al collo sul sagrato di una piccola chiesa di paese, non un capolavoro architettonico, anonima, ma dall'aspetto famigliare. Era la chiesetta di Tornavento, una frazione del comune lombardo di Lonate Pozzolo (Varese), a due passi dallo scalo internazionale di Malpensa. Di lì a poco avrebbero fatto la loro irruzione nella piazzetta (splendida, con vista sulla valle del Ticino e sul Monte Rosa) uomini e donne vestiti del '600 con tanto di moschetti, spade, picche e persino cannoni. Aveva così inizio la XX edizione della rievocazione storica della battaglia di Tornavento. 
Perché pensavo alle parole del Manzoni? Non tanto perché i figuranti che comparivano in piazza erano su per giù vestiti come i personaggi del suo romanzo, ma perché mi ero messo a ragionare su che senso abbiano queste rievocazioni storiche. 
Premessa: il 22 giugno 1636 nei pressi di questo piccolo borgo avvenne una battaglia tra francesi e spagnoli, all'epoca impegnati nella guerra dei trent'anni (esatto, la stessa che si cita nei Promessi). Fu una battaglia piuttosto sanguinosa, ma sinceramente viene difficile considerarla un episodio di vitale importanza nella storia italiana ed europea. Eppure da vent'anni qualcuno spende del tempo e del denaro per rievocarlo. Perché? Ci potrebbero essere mille perché, ma a me cinicamente ne viene in mente per primo uno: perché, se non fosse per questa battaglia, Tornavento resterebbe nascosto nell'anonimato più totale. C'è qualcosa si sbagliato in questo? Assolutamente no, anzi. E' sempre questione di prospettive: per il piccolo (paese), il piccolo (episodio storico) è qualcosa di grande che lo aiuta a sentirsi meno piccolo. Quella domenica, la guerra contro il tempo si è ripetuta: gli anni già morti vengono passati in rassegna e schierati di nuovo in battaglia. Ma non è vero che al tempo si tolgono solo i bottini più ricchi: c'è chi ha bisogno del bottino più povero per sentirsi (giustamente) importante.
 















Un sacro disordine

Targu Neamt, regione della Moldavia, nord est della Romania. E' un inizio d'anno gelido, il cielo è quasi sempre coperto, la luce dura poche ore. Da Bucarest sono risalito fino alla città di Iasi per ritrovare una persona che non vedevo da quando ero piccolo. L'ho trovata, come se il tempo non fosse passato per nulla. Insieme abbiamo mangiato una fetta di panettone e ci siamo parlati a lungo mentre fuori dalla finestra, lontano a ovest, il manto di nubi finiva  e il cielo accennava un tramonto. 
Sulla strada del ritorno un cartello segnala un monastero. Ci sono cartelli così in tutta la Romania: è probabile siano sorti più monasteri qui che in tutto il resto dell'est Europa. Quello di Targu Neamt non è certamente il più bello: giorni prima, nella regione della Bucovina al confine con l'Ucraina, Voronet si è presentato ai miei occhi come una meraviglia che forse non sarò mai in grado di spiegare. A Targu Neamt, però, mi sono imbattutto in un posto davvero bizzarro.
La struttura del monastero rispetta la tradizione: forti mura perimetrali, un grande spiazzo interno con al centro l'antica chiesa le cui pareti interne non hanno un centimetro di intonaco che non sia affrescato. Monaci con lunghi e pesanti soprabiti neri escono dalle loro stanze, attraversano lo spiazzo bianco di neve e ci si infilano dentro. I suoni sono ovattati: scarponi che scricchiolano sulla neve fresca, cani in lontananza, una mamma che sgrida una bambina. Tante famiglie approfittano delle vacanze di Natale per visitare i luoghi di una fede che in Romania resta, al contrario che altrove, forte e salda.
La sorpresa per me arriva una volta uscito dal monastero. Nel piazzale esterno, oltre le poche auto parcheggiate, c'è una struttura circolare con un'alta cupola sovrastante. Parrebbe un battistero o una cose dal genere, invece da lontano, sopra la porta d'ingresso, leggo la scritta "libreria". Quando entro non ci voglio credere. Sotto una volta finemente affrescata c'è tutto. Ossia: tutto. Un bazar in piena regola, senza il minimo concetto di ordine. Migliaia di libri accatastati, icone, crocifissi ma anche cassette di frutta e verdura, martelli, caramelle, un frigorifero con i gelati, quadri, pacchetti di patatine, rullini fotografici, bibite, scarpe, attrezzi da lavoro. Torno a guardare il soffitto per qualche secondo, poi riabbasso gli occhi: è ancora tutto lì. Un prete barbuto e con indosso un maglione liso si aggira in questo marasma con la stessa compostezza di un custode del Louvre. Cerco di toccare tutto, pesco libri a caso: biografie di monaci, spiritualità, storia nazionale. Più in là: paramenti sacri e abiti comuni. Me ne vado senza la minima idea del luogo e della sua funzione. Una cosa è certa: quelle figure angeliche in alto, quel casino in basso, una metafora del cosmo di cui ho trattenuto un vago senso di sacro.





People from Baku

Marzo 2015. 

Baku è nei giorni del Novruz, l'antico capodanno persiano in cui si festeggia l'arrivo della primavera. Le scuole sono chiuse, la gente si trasferisce in centro per festeggiare. La notte qualche fuoco si accende attorno alle mura della città vecchia e i giovani ballano in cerchio con rapidi passi dei piedi. Baku è una città divisa tra tradizione e voglia di modernità, di Europa, di Occidente. Il vetro e l'acciaio delle costruzioni più recenti si unisce alla pietra della città vecchia, dichiarata patrimonio dell'umanità dall'Unesco. 

Nei miei 4 giorni in Azerbaijan ho avuto la sensazione di un Paese costretto a nascondersi, obbligato a mostrare solo il lato migliore di sé, fatto di gente semplice dal sorriso appena accennato. Un Paese di frontiera (qui da sempre occidente e oriente si incontrano) in un periodo della sua storia decisivo per dettarne il futuro.


Baku, panorama

Una famiglia si gode un giro sopra la discutibile riproduzione di una gondola veneziana

Baku, ritratto

Baku, ritratto

L'artista Farid Rasulov nel suo studio

Baku, Città vecchia

Baku, Città vecchia

Baku, una giovane danzatrice in abiti tradizionali

Baku, venditore ambulante

Baku, una compagnia di ballo si esibisce sul palco della festa di Novruz

Baku, pubblico davanti al palco della festa di Novruz
Baku, festa di Novruz

Baku, ritratto

Baku, Heydar Aliyev Centre


Provviste #24 - Lettera del Vampiro (alla Vamp)



Da quando è uscito lo scorso 25 novembre (e non è un caso, visto che in quella data si celebra la giornata mondiale controla la violenza sulle donne), il video di Marcondiro, artista e cantautore romano di finezza ed esperienza, ha fatto parlare di sé. Lettera del Vampiro (alla Vamp), brano che anticipa l'uscita del suo prossimo disco, è a tutti gli effetti e per stessa ammissione dell'autore, "un'ironica invettiva contro la misoginia". Del suo ritornello - "Se ti viene voglia di amare qualcuno, uccidilo: è il tuo vampiro" - si è già chiarita altrove la valenza metaforica, ironica e volutamente irriverente (per esempio su L'Huffington Post).
Quello che non dovrebbe passare inosservato è però il valore culturale dell'operazione svolta da Marcondiro. Riprendere una vecchia lettera di Antonin Artoud e trasformarla in canzone non è una cosa da poco. Soprattutto perché significa scommettere su uno dei geni artistici più oscuri ed enigmatici del '900.

Attore, commediografo, regista e scrittore, Artaud fu maestro di quello che ancora oggi viene definito "Teatro della crudeltà", dove per crudeltà non si intende dolore o violenza ma catarsi. Per poter giungere ad essa è necessario ricorrere a tutto ciò che possa disturbare la sensibilità dello spettatore, provocando in lui una sensazione acuta di disagio interiore. Disagio che abitò in Artaud fin dalla gioventù: vittima da bambino di una meningite, ebbe seri problemi neurologici che lo portarono poi, tra le altre cose, alla dipendenza da droghe e alcol. Nel febbraio 1945, a Rodez, nell’Istituto Psichiatrico in cui era ospite da circa due anni, Antonin Artaud comincia a riempire dei quaderni «di appunti sulla letteratura, la poesia, la psicologia, la fisiologia, la magia, la magia soprattutto», quasi senza interruzione, fino alla morte, ad Ivry-sur-Seine, il 4 marzo 1948. La sua vita era stata segnata da otto anni d’internamento coatto, una cinquantina di elettroshock, “succubi e supplizi” d’ogni tipo e dalle tappe di un delirio sempre piú intenso.

In un'esistenza del genere, quale spazio per l'amore? Quale voce dare a ciò che potrebbe rivelarsi fonte di altre sofferenze?
In una delle sue lettere Artaud dichiara di volersi tenere alla larga dalla passione travolgente, da quel sentimento "forte e incontrollato" di fronte al quale teme di essere ancora vittima. Meglio immaginare un rapporto di coppia statico, che non mini la tranquillità del quotidiano: è il compromesso di un Amore-materasso sopra cui adagiarsi e sotto cui nascondere velleità e chimere. Ma è così - rinunciando alla sua forma più pura e ardente - che l'amore si trasforma in terreno di violenza e alienazione.

Marcondiro traduce tutto in chiave contemporanea: al centro del suo video compare una coppia fiacca e insofferente, dove lui, pigro ed irriverente, preferisce guardare film pornografici piuttosto che dare attenzioni a lei che lo stuzzica e lo provoca senza successo. E' la fiera della vacuità, dell'anti-amore che diverte e ammicca (l'arrangiamento moderno e un'estetica vintage sono a tal proposito più che funzionali, ma vero linguaggio nel linguaggio). E il Vampiro da uccidere? Il Vampiro è metafora di ciò che impedisce il sentimento vero: quella parte di noi che non vuole cambiare né tendere verso l'altro, così come l'altro quando si approfitta di noi per soddisfare il proprio ego.

Nessuna violenza vera, ovviamente. Solo ricerca di significati e sperimentazione di un nuovo linguaggio. Quel linguaggio che Artaud ha indagato così insistentemente da rimetterci la vita: un linguaggio assoluto, sganciato, folle, nuovo, catartico. Il linguaggio di una lettera d'amore scritta e buttata infinite volte.


Il sito dell'artista: www.marcondiro.it

Inviolabile Mostar

Mostar est, dicembre 2014. 

Camminiamo in una Brace Fejica semi deserta. Sono gli ultimi giorni dell’anno, qualche donna esce da un supermercato e corre a casa con il pandoro e una bottiglia da tenere in fresco fuori dal davanzale. E’ buio, le insegne dei bar e di qualche cevabdzinica illuminano i marciapiedi mentre il minareto della moschea del centro s’accende come un faro sulle acque gelide della Neretva. Poco più in là, oltre le nostre spalle, se ne sta solitario sulla sua schiena d’asino il ponte Stari Most, emblema di una guerra che da queste parti non ha smesso di lasciare tracce. Lo hanno fatto saltare le truppe croato-bosniache la mattina del 9 novembre 1993 dopo che per oltre 400 anni era stato il simbolo di una città in cui etnie e religioni erano riuscite nel difficile esercizio della convivenza. E’ di nuovo al suo posto dal 2004, in estate i giovani sono tornati a tuffarsi e a gironzolare tra negozi di souvenir. Ma in questa stagione le serrande restano abbassate, d’inverno per i turisti qui non c’è granché.
Si sentono colpi da lontano, qualche ragazzino ha iniziato in anticipo con i petardi. “Cosa ci facciamo qui?” chiedo a Marco. Lui ride, a sua volta si starà chiedendo cosa diavolo lo ha spinto a seguirmi in mezzo a tutto questo grigiore che adesso minaccia pioggia o forse neve. “Fumiamoci sopra” rispondo. 

Ma l’accendino, come al solito, è rimasto in macchina.

Qualcuno mi sorpassa, con la coda dell’occhio scorgo un paio di scarpe da ginnastica arancioni. Poi, dietro a una fiammella accesa, un paio di occhi azzurrissimi. “Upaljac” dice il ragazzo. “In bosniaco. Accendino: upaljac”. Parla un italiano scorretto ma comprensibile, porta un berretto di lana e un giubbino leggero, la barba di qualche giorno e le guance butterate.
Ringrazio. Dopo il mio primo tiro, ne accende una anche lui. Ha l’aria di uno che non vuole andarsene. Vorrà dei soldi, noi italiani siamo prede fin troppo facili. “Di dove siete?”. Milano, rispondo. Vicino Milano, ribatte Marco. “Volete vedere dove tre italiani sono morti e io mi sono beccato una scheggia nella schiena?”
La domanda è così secca e tagliente che la mia testa non ha tempo di pensare una risposta. L’istinto invece ne ha già una. “Sì” dico, “dove?” Un attimo dopo siamo già partiti, tengo il passo a fatica, lo sconosciuto cammina veloce, si è già infilato in un vicolo buio e non asfaltato. Marco invece, per prudenza, procede qualche metro più indietro. Forse l’ho cacciato in un guaio, avrei dovuto lasciar perdere.
Si chiama Ibrahim, si è voltato e me l’ha detto proprio nell’istante in cui entravamo nel cortile tra palazzoni immersi nel buio. Il grande spiazzo centrale è un parcheggio di terra umida. Ci sono degli alberi e qualche lampione. E’ qui che comincia la sua storia.
“Durante la guerra stavo in quell’appartamento lassù, al terzo piano, a casa di mia zia e mia cugina. Ma la maggior parte della giornata noi bambini la passavamo qui, c’era un rifugio dove trasmettevano quelli di Radio Mostar”. Mi indica una porta di metallo male illuminata. In quei giorni terribili senza più acqua, né corrente, né telefono le radio erano strumento di comunicazione, davano il conto dei vivi e dei morti, mettevano in contatto le persone, suggerivano spostamenti. “Quel giorno eravamo qui fuori nel cortile con tre signori della televisione italiana. E’ arrivata una prima granata. I croati sparavano da nord, sulle colline. Poi una seconda, molto più vicina. Il colpo mi ha spinto in questo pozzetto, è l’ingresso di un bunker. Nella schiena mi è arrivata una grossa scheggia. Mi sono salvato.”
Marco Luchetta era un giornalista triestino della Rai. Con lui, per la Bosnia, erano partiti gli operatori Alessandro Ota e Dario D’Angelo. Dovevano realizzare un reportage per il Tg1 sulle tragiche condizioni dei bambini di Mostar, orfani di guerra oppure abbandonati dalle loro madri perché figli di uno stupro. Erano arrivati a Mostar da Medjugorje su mezzi della Croce Rossa Internazionale, scortati dal contingente spagnolo dei caschi blu. Venerdì 28 gennaio 1994 sono morti mentre intervistavano Zlatko, un altro bambino salvatosi per miracolo.
Una targa li ricorda nell’esatto punto in cui tutto è accaduto. Ibrahim me la indica, è scritta nella doppia lingua. Nella parte in bosniaco alcune lettere sono state cancellate: “Abbiamo insistito perché il sindaco facesse togliere la parola bratoubilacki, che significa fratricida. Non era una guerra fratricida quella, i fratelli non si scannano. Era una guerra civile.” Sono passati vent’anni e le parole pesano ancora come macigni. Non sarà forse il caso di Ibrahim, ma temo che non riconoscere un tuo fratello nel nemico di un tempo possa comportare il non volerlo cercare oggi in chi ti abita a fianco. Le barriere da qualche parte restano: sono sottili, nascoste, per abbatterle non basta ricostruire.

Mostar, la targa in ricordo dei giornalisti italiani uccisi




Un’ora dopo sediamo ai tavolini di un bar di Mostar ovest. Nevica e Ibrahim sorride. Dice che una volta la sua storia l’ha raccontata anche alla televisione italiana, lo intervistava un giornalista molto grasso, famoso. Poco fa invece, in Alekse Santica, ha insistito perché entrassimo con lui dentro a un palazzo sventrato. Le torce dei nostri telefonini che illuminano i corridoi: muri crollati, calcinacci, pareti nere, i sacchi di sabbia alle finestre. Al terzo piano ci abitano ancora, la gente non ha fatto altro che tirare un muro di mattoni a vista e rifarsi un appartamento nella via dove si è combattuto finestra dopo finestra fino all’ultimo bossolo: da una parte i croati dell’HVO, a nemmeno trenta metri i bosniaco-musulmani dell’Armija.
Non lontano, oltre il ponte di Tito, c’è una struttura d’inizio ‘900 ricostruita grazie a fondi italiani. E’ il Gradsko Kupatilo, il bagno pubblico di origine ottomana. Al secondo piano un gruppo di persone aspetta sul pianerottolo. Ibrahim discute a lungo con la signora che nella guardiola gioca a un solitario davanti a un vecchio pc: possono entrare, non possono entrare, il problema sono le nostre scarpe. Poi capiamo il perché: oltre la porta a vetri smerigliati ci investe il tepore di un corridoio avvolto dalla condensa delle docce, il pavimento è bagnato, si sentono degli schiamazzi; infine, svoltato l’angolo, c’è quello che non ti aspetti: una piccola piscina dentro a un salone neoclassico con archi e colonne, le pareti color acquamarina, una cupola dai vetri rossi gialli e verdi. E’ un gioiello. “Vedete?” ripete Ibrahim allegro. Il maestro di nuoto soffia nel fischietto, i bambini si tuffano in acqua e fanno le prime bracciate. Uno di loro riaffiora accanto a noi e si aggrappa al bordo per prendere fiato, mi scorge con indosso la giacca a vento, il cappello di lana e gli scarponi sporchi di fango. “Sorridi” gli dice Ibrahim, “questo signore ti fa una foto per un giornale italiano.” Quando ce ne andiamo la signora interrompe i suoi affari e fa un cenno di saluto: srtna nova godina, buon anno nuovo! Ibrahim qui conosce tutti, lavorava come istruttore di nuoto prima che lo licenziassero. Ora non sa come far mangiare la moglie e i due figli. In Bosnia la disoccupazione sfiora il 40%.
Per ultimo Ibrahim mi regala un pezzo di fumo. “Per la notte” dice. Poi chiede dei soldi come farebbe una guida alla fine del suo tour. Di spalle si allontana, le scarpe da ginnastica arancioni pestano i primi fiocchi di neve.

Mostar, la mia ombra dentro a un palazzo di via Alekse Santica

La storia di Ibrahim mi ha fatto compagnia per giorni. Tornato in Italia, mosso da non so cosa, ho contattato la signora Luchetta, vedova di Marco. A convincermi è stata una coincidenza cha sarebbe lungo spiegare e che riguarda una mia vecchia partecipazione a un concorso letterario. Il giorno in cui le ho telefonato (abita a Trieste) mi sono accorto di un’altra coincidenza: la sera prima era andata in onda la prima puntata di uno sceneggiato televisivo ambientato a Sarajevo. Era la storia di un inviato di guerra che riesce a portare in Italia una bambina bosniaca per adottarla. 

La signora Daniela però non lo ha visto. Di proposito. “Non voglio farmi del male” mi dice con una voce  chiara. “Devo andare avanti, non posso farmi ancora ferire alle spalle”.
Marco, mi spiega, era andato in Bosnia almeno una decina di volte prima di quella. Si era fatto prendere da una febbre. Quando tornava era felice, ma allo stesso tempo iniziava subito a pensare a quando sarebbe potuto ripartire. “Quando conosci davvero cosa significa vivere sotto le bombe, quando vedi con i tuoi occhi i bambini giocare in mezzo alle esplosioni, quando tocchi con mano le tragedie della gente, non riesci a essere più lo stesso. O decidi che non ti interessa nulla, cerchi di liberartene, oppure quella diventa una cosa tua che ti prende i pensieri e non te li molla più. Nemmeno sarei in grado di dire quanto la Bosnia, per Marco, fosse un’urgenza”.
Il fatto all’epoca sconvolse tutta l’Italia. Dopo la seconda guerra mondiale era forse la prima volta che dei giornalisti italiani venivano uccisi in guerra. Per Trieste poi fu una vera tragedia.
“Venimmo a sapere di Zlatko, il bambino ferito dalla granata” racconta ancora la signora Daniela. “Ci dicemmo che dovevamo portarlo al più presto via di lì. Come privati cittadini era quasi impossibile, allora formammo un comitato. Ci mettemmo in contatto con il padre di Zlatko, il quale dopo l’inizio della guerra era emigrato in Svezia. Non fu facile fare tutto, ma poi finalmente il bambino arrivò in Italia con la madre. A quel punto, visto che ci eravamo riusciti con uno, prendemmo fiducia. Così nacque la nostra Associazione. La sede Rai di Napoli ci inviò 50 milioni raccolti tra giornalisti e operatori. La provincia di Trieste fornì in comodato la casa che ancora ospita la sede. Ma la cosa che mi diede più fiducia, all’epoca, fu l’aver ricevuto una telefonata dal sindaco di Mostar. Mi disse: Voglio che voi sappiate che dal momento in cui suo marito e i gli altri giornalisti sono morti, i Croati hanno smesso di bombardarci: l’attenzione del mondo è stata talmente focalizzata su Mostar Est che noi abbiamo smesso di morire. Vede, è questo che dà un senso a tutto quanto”. 
La signora Daniela ha evidentemente realizzato cosa significa, nel senso etimologico della parola, il sacrificio di suo marito: dal latino "fare sacro", dove sacro sta per "inviolabile". La morte di Marco Luchetta e dei due operatori Ota e D’Angelo ha reso inviolabile un pezzo di terra di Bosnia. E la Fondazione Luchetta-Ota-D’Angelo-Hrovatin continua su quella strada: protegge i bambini, ovvero gli inviolabili per eccellenza.

A questo punto della telefonata le racconto di Mostar e del mio incontro con Ibrahim. Mi dice che non ne sa nulla, non ha mai sentito parlare di un altro bambino presente al momento della tragedia. Consiglia di provare a chiedere a suo figlio Andrea, giornalista a Roma, che in questi anni si è speso più di lei nel tentativo di ricostruire i fatti. Lo contatto via mail, lo trovo disponibile fin da subito, rimaniamo d’accordo per una telefonata di lì a qualche giorno.

Non l’ho mai chiamato.

Ibrahim oggi è mio amico su Facebook, ha compiuto gli anni da poco. Era davvero presente quando quella granata è caduta? Non voglio chiederglielo e non mi importa più granché. Ho tenuto tutto in disparte fino ad oggi. Certe storie se non le finisce l’uomo, le chiude il tempo.


Mostar, colori sui muri crivellati



Provviste #21 - Murakami Haruki

La sincerità è un sistema complesso. È difficile scrivere un libro sincero, ma a volte qualcuno ci riesce. Allora leggere è un piacere.
La strana biblioteca di Murakami Haruki (pubblicato da Einuadi) è un libro sincero e tutti i meriti vanno al suo autore. Sulla trama non bisogna dire molto: un ragazzo entra in una biblioteca. Da lì, il resto.
Haruki Murakami, da vero artigiano del racconto, ci immerge con esperienza tra pieghe dark ed intriganti; coltiva, sopra una prosa minimalista, elegante e ipnotica, un racconto di grande elasticità sul piacere della lettura e sull’elaborazione del lutto. Sotto la maschera di ambiguità e spiazzante stranezza, infatti, faticano a rimanere frenati i nobilissimi movimenti etici dell’autore giapponese, equilibrista capace di progettare la sua opera in bilico tra gli estremi fiabeschi e quelli puramente formativi. Il risultato è a dir poco magnetico. Anche perché il significante è perfettamente complementare al significato e tutto rientra coerentemente non solo nella cifra stilistica dell’autore ma anche in quella contenutistica. Di questo equilibrio sono gioiosa testimonianza i disegni di Lorenzo Cecchotti, artista italiano scelto per l’edizione italiana del libro (in ogni nazione l’illustratore è diverso), tutti tesi a impaginare le acrobazie poetiche dello scrittore pur conservando l’identità artistica dell’illustratore. La strana biblioteca pertanto condivide senza eccezione quella rara cornice estetica dei grandi romanzi illustrati, dove la calma delle parole incontra il crepitio del disegno e l’occhio esulta con la mente. In tre parole: la sincerità paga.

(scritto da Leonardo Strano)



Leonardo dice: "Piacere, sono nuovo qui, mi chiamo Leonardo Strano. Pochi anni sulle spalle, frequento il Liceo Classico, ho qualche passione. Scrivere (per lo più recensioni), il cinema e leggere sono le maggiori. Per il resto amo il profumo della carta, il bianco e nero, i faggi in autunno e la neve che scricchiola sotto i piedi. "

I passi del cuore

Passi from Antonio Oleari on Vimeo.

Personaggi:
Francesca
Paolo

Dove:
Ospedale di Desio (Monza e Brianza)

Quando:
giugno 2015

Perché:
perché dopo che papà ha avuto un infarto ho pensato spesso a quanto fossero preziosi i passi che ogni giorno, verso le cinque del pomeriggio, mi portavano da lui. Non erano fatti con le gambe, ma col cuore. E mi portavano al suo. Un giorno ho deciso di contarli...

Acque


Personaggi:
Foli
Simone
Federico

Dove:
Valli di Premana (Lecco)

Quando:
primavera inoltrata del 2015

Perché:
perché l'acqua è la cosa migliore da filmare, perché cadeva il polline dagli alberi, perché c'erano gli asini e perché è così che si forma un giorno in cui senti tutto scorrere.

La canzone è di Pallante ed è tratta dal suo album Ufficialmente pazzi (IT.POP, 2015)