I Galilei - Epilogo

Epilogo.

Il signor Galileo è seduto al centro del palco. La sala è completamente oscurata, solo il verde chiarore delle uscite di sicurezza indugia sul velluto dei tendaggi. Quel chiarore dona al buio lo stesso senso di protezione che abita di solito nelle camerette dei bambini. Deve sentirsi uno starnuto.

Luna: Salute! Ci ammaliamo?
Galileo: Grazie… Beh, è dicembre. E viaggiamo molto. Dentro fuori, caldo freddo.
Luna: Come mi trovi?
Galileo: Non ti trovo, se è per quello. Non fingere di non sapere che non ci vedo più.
Luna: Non fingo.
Galileo: Allora avvicinati su, che ancora non ci sei.

La Luna impiega un buon minuto per comparire dietro al vetro dell’unica finestrella aperta sulle quinte. Intanto, silenzio. Lei è turca, a mezzaluna, sbilenca.

Galileo: Sei turca, a mezzaluna, sbilenca. Quasi fuori stagione.
Luna: Già. Alla fine dell’anno ci si ritrova smagriti.
Galileo: Alla fine dell’anno ci si ritrova cresciuti.
Luna: Vorrai dire invecchiati?
Galileo: Cresciuti, preferisco. Si invecchia quando ci si lascia vincere dal tempo. Si cresce quando ci si spende, ci si consuma facendo. Io questo l’ho imparato negli ultimi tempi.
Luna: L’hai imparato da me, insomma.
Galileo: Da te?
Luna: Io, sì, il regista.
Galileo: Oh insomma! Che storia è, questa?

L’uomo appoggia il bastone che usa per camminare di fronte a sé. Si sdraia su un lato reggendosi col gomito. Il palmo della sua mano tocca la superficie polverosa delle assi. Qui inizia il monologo in cui la Luna spiega.

Luna: Qualche secolo fa attraversavo un periodo di depressione. Uno di quelli in cui ti senti completamente inutile e ti convinci sempre di più di non servire a niente e a nessuno. Mi consigliavano di trovare un’occupazione, dicevano che essere guardata tutta la vita non basta a una signora, immaginarsi a un satellite. Io non sapevo… Di solito sono piuttosto bloccata, vivo di complessi d’inferiorità. E poi finisce che se non ci proponiamo noi, dobbiamo accettare quello che viene…

Pausa. La Luna entra dall’abbaino in cerca di un abbraccio. Il teatro si illumina di una luce argentata.
Luna: Così la Terra mi ha trasformato in uno sgabuzzino dove ammucchiare le cose dimenticate dagli uomini. In tanti anni mi è arrivata ogni cosa…
Galileo: Che cosa?
Luna: Tutto! Solo che io quelle cose ho sempre sperato che la gente se le riprendesse. E quando lo spazio è iniziato a mancare, quando ogni buca si era riempita, ho deciso che avrei restituito ogni cosa al suo proprietario. Anche a te.
Galileo: A me?
Luna: Per una vita ho custodito quel che non volevi…
Galileo: Cosa… non volevo?
Luna: Sentire, Galileo! Tu non hai mai voluto sentire quello che sei.

Galileo si rimette dritto. Sente che la Luna ha occupato tutti i posti a sedere. Si alza e avanza picchiettando il bastone finché il palco non è finito. Lentamente si siede sul bordo con le gambe a penzoloni. Da qui in poi battute molto lente: le pause!

Luna: Vorresti dirmi che non l’avevi capito? La tua teoria, professor Arcetri… Quella che ti ha portato fin qui.
Galileo: Ma… Voglio dire… Sarà mica stata una tua architettura?
Luna: Mia, sì. Era una pena vederti da quassù, sai. Dovevo fare qualcosa. E’ stato un lavoro di anni…
Galileo: Racconta, ti prego.
Luna: Dovevo toglierti qualcosa. Ho pregato quel cagnone randagio di aiutarmi: un giorno si è presentato nell’androne del palazzo che gli avevo indicato e tu, come mi aspettavo, lo hai accolto in casa. Gli hai dato il tuo nome. Questo a dire  il vero non l’avevo previsto, ma col senno di poi tutto ha un senso: Galileo doveva essere esattamente il tuo nuovo te. Ho fatto in modo che il vostro legame diventasse solido come tu non ne avevi mai avuti, professore, nemmeno con la madre di tuo figlio. Poi, al momento opportuno, il cane ha fatto sì che quella caldaia esplodesse nel momento esatto in cui passavi tu. Da lì il calo della vista e la lenta cecità. Nel frattempo Galileo faticava per te in continuazione. Gli feci ritrovare il tuo vecchio alunno, Bonaventura. Si incontravano ogni giovedì sera, ascoltavano dischi rubati, mentre io preparavo tuo incontro con lui: l’uscita di casa, la pensione, il Gracco, il suo banco dei dischi. Iniziasti ad ascoltare la musica degli sconosciuti, e a capire che la musica sa parlare della vita. Primo passo.
Galileo: E poi?
Luna: E poi dovevo farti fare il secondo. Amare il suono di chi ti stava vicino. Una sera in cui ero piena tolsi il sonno a un giovane tenente della guardia di finanza, il quale, uscito dalle coperte di Violante, il trans, piuttosto che andare a dormire sfogliò il fascicolo sulla società immobiliare di tuo figlio. Un mese dopo Bellarmino era in prigione. La sua villa, il saxofono, Ermes che può tornare a parlare la sua lingua. Come lo ascoltavi, Ermes, vero? Iniziavi a non poterne fare a meno…
Galileo: Vai avanti. Ma piano.
Luna: Più la vista ti calava, più le tue orecchie si facevano acute. Osservavi con loro. Ma a me ancora mancava di restituirti quello che dovevo: il tuo, di suono. Quell’insieme unico di note che compone il battere del tuo cuore. Ora che camminavi sulle tue gambe, Galileo si faceva da parte. Il suo compito era finito. Tu eri già in viaggio con i tuoi musicisti. Avevi in mano la tua teoria: può un uomo vedere ascoltando? C’eri quasi. Stasera lo hai capito fino in fondo. Può un uomo vedere ascoltandosi? Certo. Certo che può. Una volta che è diventato quel che doveva essere davvero.

Il poeta sorride. Poi applaude.

Luna: Grazie. Non ti nascondo che il tuo applauso è un bel concentrato di autostima per me.


Il signor Galileo stende una gamba e allunga il piede verso il pavimento. Quando lo sente, scende dal palco e si avvia per il corridoio centrale. Cammina verso l’uscita. I musicisti lo aspettano in pizzeria per cenare. La luna intanto è sparita dalla platea. Il resto, a braccio.