Sudare a parole

Il mio primo ricordo è un piccolo quaderno blu con un cagnolino disegnato sopra. Era uno di quelli con la copertina rigida che si potevano chiudere grazie a un piccolo lucchetto. Praticamente un diario. E in effetti il compito era proprio quello: tenere un diario della nostra estate, scriverci sopra i posti che avremmo visto, la gente che ci sarebbe capitato di incontrare, i pensieri sparsi che in qualche maniera avremmo desiderato mettere nero su bianco. Vi sto parlando della seconda media, estate 1997, quella che all'oratorio feriale per poco la mia squadra non vinceva il torneo. Della professoressa ricordo ancora nome e cognome: Maria Paola Paolillo. Disse che me l'ero cavata: nel diario le raccontavo delle serate in cui costringevo mia nonna Rosa a guardare con me interminabili partite di calcio, per esempio, oppure del viaggio in Portogallo con mamma e papà e di tante altre piccole e grandi faccende che possono capitare a un ragazzino di 13 anni in un'estate lunga e caldissima, compresi i dubbi e le paure sul primo bacio della mia vita. 
Perché ricordo tutto così bene? Perché quella fu, più o meno, la prima volta che scrissi qualcosa di mio. E a rileggerlo adesso fa un sacco ridere: volevo fare il poeta senza riuscirci. 
Poi ho un altro ricordo. A 15 anni, in una sera di giugno, scrivo una poesia. Parla di campi di grano, di Ulisse, del mare e di fuga. Tutti vogliamo andarcene da dove ci troviamo, a 15 anni. E io quella volta l'ho voluto scrivere, perché avevo la precisa sensazione che dopo una serata in cui nessuno ti dà retta, se non scrivi quello di cui parlano i tuoi sogni, quelli rischiano di andarsene via e non tornare più. 
Mesi dopo ero ancora lì che scrivevo poesie. Stavolta il mio cuore aveva cambiato programmi: non voleva più scappare, voleva restare, restare qui. Perché qui c'era Federica e io sentivo di amarla tantissimo. Il fatto che lei mi reputasse il suo migliore amico fu una vera tragedia ma allo stesso tempo fu la molla che mi spinse a continuare a scrivere ogni giorno qualcosa che parlasse di lei. Anche le pagine di questo diario poetico, se le rivedo adesso, fanno ridere. Ma del resto, come diceva Benedetto Croce (un importante filosofo e pensatore italiano vissuto a cavallo tra '800 e '900): "Fino a 18 anni tutti scrivono poesie." Per cui, diciamolo, non ho commesso niente di strano. Il fatto è che la frase di Croce prosegue, e prosegue così: "Poi quelli che continuano a farlo o sono dei poeti o sono dei cretini." E qui devo ammettere, purtroppo, che fino ad oggi ho dato prova di essere un tenacissimo cretino. 
Ma tornando per un attimo alle poesie per Federica, ho capito anche un'altra cosa: sono brutte. Sono brutte perché semplicemente sono scritte male. E credo per due motivi: 
1) all'epoca non leggevo poesie, se non le poche che la professoressa di italiano ci spiegava in classe.
2) non ci mettevo nemmeno un po' di fatica; ossia scrivevo quello che mi veniva e morta lì.

Questo per dire che che la scrittura ci può regalare moltissime soddisfazioni (per esempio la possibilità di esprimerci per quello che realmente siamo e di farci capire dagli altri in maniera chiara) ma in cambio ci chiede anche due grandi sforzi: il primo è LEGGERE. Nessuno ha mai imparato a dipingere senza prima aver visto un quadro. E non conosco musicisti che prima di iniziare a suonare uno strumento non si siano lasciati stregare dal suono di una musica composta da altri. Allo stesso modo, pretendere di scrivere bene, di prendere bei voti nei temi, di mettere insieme magnifiche poesie da dedicare alla propria innamorata, senza aver letto... beh, è una bella pretesa, appunto!
Secondo: occorre imparare delle tecniche e applicarle. Non basta buttare sul foglio le prime cose che ci vengono in mente. Questo è importante per dare avvio alla nostra vena creativa, ma poi deve intervenire qualcos'altro. Insomma, la scrittura richiede anche fatica. La fatica di fare e rifare, scomporre, tagliare, rivedere, cambiare. Non è una cosa semplice, ma si può imparare a farlo. Esattamente come voi avete imparato uno sport, vi siete appassionati, avete accettato piano piano di spendere fatica per averne in cambio soddisfazioni.

La fatica di scrivere, insomma. E questo sudare a parole che faremo insieme. Cercando, naturalmente, di divertirci e metterci passione. 

P.s.: E oggi? Oggi continuo a scrivere un pochetto ogni giorno. E' un compito che mi sono dato, ma spesso bigio e non lo rispetto. Di sicuro, ogni volta che mi ci metto, sudo. E faccio una fatica boia.



Una scuola delle tante

Una struttura nemmeno troppo vecchia, anni '90, con i pavimenti di linoleum, le scritte sui muri a bomboletta, i vetri sporchi, qualche porta scrostata, tanto cemento. Una scuola statale delle tante. Lampugnano, la ricca Milano.
Nella folla dell’ingresso riconosco Alice, ci abbracciamo come due migranti dopo la traversata dell’Atlantico. Mi aveva scritto qualche giorno fa: “Io lo tento, ne vale la pena. E tu?”
Io penso che forse forse non ne vale la pena. Per lei invece insegnare è sempre stata l’unica alternativa fin dai tempi del liceo. La trovo agitata, fuma l’ultima sigaretta, dice che le hanno dato il permesso di uscire anche se ha già ricevuto la busta sigillata con le domande. Dalle vetrate intravedo file di banchi già occupati e una grande agitazione per i corridoi. “Comunque sei in ritardo, come al solito” mi fa notare dopo il secondo tiro, e forse starà pensando a che professore voglio essere, senza la puntualità e la precisione. “Entra su, che solo per registrarsi ci vuole una vita.” Fa un caldo terribile, metà luglio, il primo giorno d’estate dopo cisterne di pioggia. Entro.
I quasi duemila sono stati divisi per lettere, cercare l’aula diventa una caccia spietata in cui mi sento maledettamente solo, i corridoi tuonano di urla: lunghissime code, lamentele, “signora sto facendo il mio lavoro”, trattarsi male ma con davanti il lei, “ma lei lo sa che sto girando come un matto da un’ora?”, l’accento meridionale che nella mia testa vuol dire bidelleria, suono della campanella, quel senso di approssimativo che ti tocca accettare fin da piccolo.
La bidella ha proprio quell’accento. E’ una signora bassa, in ciabatte, sta appoggiata alla parete mezza sudata. Per darle un tono le hanno messo una targhetta sul petto con scritto “T.F.A. - Servizio Assistenza”. “Da dove arriva?” mi chiede vedendomi col fiatone. Ho appena fatto quattro piani di scale dentro una torre che potrebbe essere quella di un penitenziario. Alla lettera O è toccata un’ala distaccata. “Praticamente da una maratona” le rispondo. Ride. “Eh, figlio mio, cosa dovrei dire? Tutti i giorni faccio i chilometri, io”. Si stacca dal muro e zoppicando mi accompagna dentro alla stanza dove vengo registrato. Esco con una busta in mano. Tutti gli altri sono già seduti addossati alle pareti di un corridoio che gira in tondo e non se ne vede la fine. Nessuna finestra. “Togliete i sigilli solo al suono prolungato della campanella” dicono quando le lancette dell’orologio segnano le dieci. Un’ora dopo - a due ore di distanza da quello che doveva essere l’orario ufficiale -, quando oramai le battute e le minacce si sono sprecate e nessuno ci spera più, sentiamo il trillo.
Le buste si aprono: ci sono sessanta domande a risposta multipla. Rido pensando a quante puntate del Milionario potrebbero farci, poi penso agli stipendi da fame che spetteranno ai più fortunati di noi e non rido più. L’unico milione con cui avremo a che fare sarà quello di Marco Polo, ammesso che resista al lento assottigliarsi dei programmi di letteratura.  
Le domande. Chi come me insegna già da qualche anno sa che uno dei ritornelli su cui insistono sempre più spesso presidi, Ministero e addetti al settore è quello di una scuola sempre meno nozionistica. Infatti. Qui c’è da sapere la data del concilio di Worms, i confini del Molise, i versi di Sbarbaro a memoria e lo Zollverein tedesco. Mi guardo attorno, sono tutti con la testa china. Chi riuscirà a collezionare quarantadue risposte esatte passerà. A cosa? A una prova scritta, e chi passerà anche quella arriverà al fatidico orale. A quel punto sarà ottobre, e ai pochi rimasti spetterà il premio: pagare un paio di migliaia di euro per frequentare un corso universitario di un anno (si chiama Tirocinio Formativo Attivo) al termine del quale avrà ottenuto l’abilitazione all’insegnamento. Dopodiché, anni di precariato nello Stato. E pensare che Dante ha dovuto fare tutta quella fatica per immaginarsi l’inferno.
I controlli non esistono. Alle mie spalle sento bisbigliare, all’inizio poco, poi sempre di più, e ogni volta penso che mi basterebbe andare in bagno, estrarre dalla tasca il telefono cellulare e verificare su internet le risposte. Ma non lo faccio, non voglio togliere al destino il compito di decidere se è davvero in posti così, tra gente così, che dovrei investire il mio futuro.
Alla fine delle due ore un altro suono di campanella. Veniamo chiamati a turno per riconsegnare le risposte in busta chiusa, le operazioni durano una vita. Nel frattempo, dall’altra parte della torre, nel lato oscuro di quel corridoio circolare, si procede a una bella revisione collettiva. Infine il serpentone di gente scivola giù per le scale. Mi alzo per ultimo, qualcosa mi spinge verso la stanza dove i dirigenti stanno impilando le buste. “Scusate…” dico, “permettetemi di chiedervi una cosa”. I tre alzano la testa abbozzando una specie di assenso. “Voi credete davvero alla serietà di quello che state facendo?”. In due ridono, la terza reagisce seccata, mi indica l’uscita, dice che non mi devo permettere perché lei sta rappresentando lo Stato. Allora me ne vado e penso che tutto sommato non ha tutti i torti, in effetti lo Stato finora lei lo ha rappresentato benissimo. Per due ore, seduta scomposta su una sedia e con i piedi fuori dalle scarpe, ha letto annoiata 1984 di Orwell dimostrando almeno un paio di cose: di avere ancora qualche lacuna letteraria da colmare e di non porsi minimamente il problema di rendere efficace e credibile il suo operato.
All’uscita, nel marasma, ritrovo Alice. E’ inviperita, anche lei ha visto gente copiare con i più semplici stratagemmi. “Non è giusto” dice. “Già” rispondo io. E' sempre stata brava e preparata, non vuole che passi anche chi non se lo merita. Io invece mi chiedo dove stia la vera fortuna, se nel farla franca o nell'uscirne sconfitti.
Mi volto: scritte sui muri a bomboletta, i vetri sporchi, qualche porta scrostata, tanto cemento. Una scuola delle tante, senza studenti dentro, senza lo straccio di un sogno.




Tutte le lingue

Il mio cuore ha disimparato tutte le lingue.
Ne ha smarrito la grammatica,
dimenticato le tracce e i segni,
perduto la scrittura e la voce.
Ogni giorno, di nascosto, ha bruciato una pagina del suo vocabolario.

Un cuore che non sa più parlare, la gente lo getta nella sala macchine,
solo il battere considera,
per bruciare energia, scaldare le case, far muovere treni, illuminare teatri.
Con un cuore privo di suoni non si dialoga. Ha una stagione
come l’hanno gli alberi. Cresce per essere bruciato.

Poi un mattino il mio cuore è fuggito, s’è fatto straniero
in quel paese straniero dove tu abiti,
dove si parla come un tempo anche lui parlava.
Non sente la fame, benedice l'ignoranza.
Mi ricorda un pellegrino felice del suo smarrirsi.

Adesso che lo ospiti, suo nuovo amore, il mio cuore ha una nuova virtù
è come un bambino che faccia per la prima volta una a, una e, una u.   


"Tutta la dignità del mondo" - Piccola lettera a Brittany Maynard

Cara Brittany,

e così è arrivata la reprimenda del Vaticano... Non sto nemmeno a chiederti se la cosa ti stupisca o meno: di certo, quando hai deciso di fare quello che hai fatto, sapevi che qualche questione di morale l'avresti sollevata. Con sincerità devo rivelarti di non essermi molto interessato alla tua vicenda. Ho avuto notizia della tua morte scorrendo velocemente un quotidiano on-line, e a quel punto mi sono fatto bastare titolo e prime righe dell'articolo. Poi, quando ieri ho sentito alla radio che un monsignore ti aveva sgridata, in un primo momento ho pensato che evidentemente qualcuno avesse perso l'ennesima buona occasione per fare un po' di silenzio. Ero lì lì per cambiare stazione, ma poi ho voluto ascoltare fino in fondo. Credo di aver fatto bene, perché tutto sommato la questione non è poi così banale, e alla fine mi sono venute in mente delle cose che vorrei dirti.
Monsignor Carrasco de Paula dice di non voler condannare la tua persona, ma il tuo gesto. "Il suicidio assistito", afferma, "è un'assurdità". Sbaglia, evidentemente. Come si può definire assurdo un comportamento così naturale e umano come il tentativo di non soffrire e di non far soffrire i propri cari? Io però voglio fare un passo oltre. E per farlo mi affido ancora una volta al peso delle parole. 
Non ho nessun dubbio sulla bontà della tua persona né su quella del tuo gesto. Metto in discussione invece la forma. Rivendichi il diritto di poter "morire con dignità", ma così sembra che chi invece sceglie di affrontare il proprio male fino in fondo di dignità non ne abbia. Dai l'idea che una fine dolorosa sia una fine indegna. Naturalmente so bene che non la pensi esattamente in questa maniera, è una forzatura - mi verrebbe da dire - "mediatica", ma così vanno le cose al giorno d'oggi: basta un virgolettato di quelli sbagliati e il messaggio che ne esce va dove vuole lui. Per questo non mi piace l'idea che potrebbe generarsi dalle tue parole (E lo dico qui per inciso: di parole ne hai dette di bellissime prima di morire, hai avuto pensieri di pace a affetto nei confronti della vita, della natura e delle persone a te care, hai una grande sensibilità, credimi, ho letto la tua storia, i tuoi viaggi intorno al mondo, però tutto questo io lo so perché ho scelto, in un secondo momento, di conoscerti meglio; se non mi fossi spinto qualche click più in là, ora come ora sarei ancora fermo a quella tua dichiarazione, e conserverei di te un'immagine parziale).
Bene, adesso ti dico cosa penso riguardo a questa faccenda della dignità. Io credo che sia degno di noi in quanto donne e uomini del pianeta Terra tutto ciò che è intrinsecamente e totalmente umano. La sofferenza è parte integrante della nostra natura, e chi sceglie di non privarsene accetta di essere uomo fino in fondo. Gesù Cristo è uomo fino in fondo solo quando va incontro con coscienza a tutti i suoi travagli. Qui stanno le basi di un credo religioso che dura da circa 2 mila anni, per questo mi pare normale che dal Vaticano vengano a dirti quelle cose. Io li capisco, per l'amor del cielo. E devo anche precisare il perché forse hanno così a cuore la questione della sofferenza: senza passare da essa Gesù non sarebbe mai potuto risorgere, e quindi elevarsi alla sua natura divina. Così anche noi non possiamo aspirare a Dio senza accettare il nostro cammino di dolore. Non risorgiamo, se non soffriamo. 
Ma niente teologia, altrimenti rischiamo di uscire fuori strada. Certo è che qui non è solo una questione di etica cattolica. Proprio ieri chiedevo ai miei ragazzi di seconda ragioneria quale fosse il loro personaggio preferito tra quelli studiati l'anno scorso in epica: quasi tutti hanno risposto Ulisse per il fascino e lo spirito d'avventura, Alessandro invece dall'ultima fila ha alzato le braccia come in un coro da stadio e stringendo i pugni ha urlato "Achille!", mentre in un angolino Andrea, col suo solito fare svogliato, ha buttato lì un "Ettore...". Stupito, gli ho chiesto perché. E lui mi ha risposto: "Perché è più umano". Infatti. Se ci penso, è proprio difficile non sentirsi vicini a quell'eroe che va incontro al suo destino conoscendolo fin troppo bene, saluta la moglie e il figlio per andare a morire davanti al suo nemico, lo affronta di petto, senza fuggire. Verrà così trafitto, lacerato, il suo corpo sarà trascinato attorno alla città di Troia, conoscerà la più profonda delle umiliazioni. Ecco, io credo che Ettore sia uno dei più grandi esempi di dignità. Egli è lo sconfitto, il più umanamente debole, e proprio per questo totalmente eroe. 
Torniamo a te, Brittany. Questo significa che adesso sei tu quella che manca di dignità? No, affatto. Credo tu abbia scelto di fare quello che, conoscendomi, farei anch'io. La paura di soffrire mi spingerebbe a cercare nei progressi dell'uomo (scienza, medicina, ricerca) la via più semplice per andarmene. In questo modo nessuno mi vedrebbe deforme, diverso, sofferente, incosciente, privo delle mie facoltà. Me ne andrei ancora bello in volto, in piedi. Come Achille, in fin dei conti: una punturina di freccia sul tallone, zàc, e via. Nessuno strepito, niente sangue. Ma è anche vero che ad Achille è concesso morire così perché semi-dio: forse anche l'uomo moderno è figlio di una divinità, la Scienza. Ma mi rendo conto che da qui si aprono altre strade di riflessione che richiederebbero tempo e competenze che non ho.
Mi basta richiamare l'attenzione sui nostri i due estremi: Ettore e Achille. Uno è forse meglio dell'altro? Penso di no. I Greci, che avevano già capito tutto, non giudicano il primo come non giudicano il secondo. Sanno che cercare di non soffrire è tanto umano quanto scegliere di soffrire. Non c'è una morte più dignitosa dell'altra. Solo diversi tipi di dignità: quella del cuore ("accetto il mio destino, lo affronto in tutte le sue conseguenze") e la dignità della ragione ("ho la maniera di non soffrire, perché non usarla?"). Ricordo a te Brittany, e a tutti quelli che leggono, che l'uomo è fatto tanto di cuore quanto di ragione. E di mezzo c'è spazio solo per la compassione nei confronti dei nostri destini terreni. Qualcosa che solo Dio, o gli dei, conoscono fino in fondo. 
Ma prima di parlare a nome loro, prima di sentenziare, restiamo uniti.

Che la terra ti sia lieve, Brittany. Riposa in pace.



La funivia, le nuvole e la pioggia

Proprio oggi che inauguravo la mia funivia
modello nuovissimo, unica campata
l’acciaio che si flette a metà del cielo.
A benedirla un gabbiano stanco,
di quelli venuti in pensione sul lago
un reduce insomma.
Ha tenuto a dire degli anni nell’oceano,
e i colombieri di un brigantino coloniale,
e della volta che quasi perdeva una zampa.
L’uomo di mare – questa la fine della sua predica,
è solo un terrestre che non sa dove appendersi.
Un palmipede senza artigli.
A quel punto dormivano tutti
quando la funivia s’è mossa
la mia funivia
ha bucato le nuvole
s’è bagnata come un dito nell’ovatta.
Da sopra ho visto l’esatto momento in cui
ha iniziato a cadere: ombrelli aperti, pozzanghere
e il brontolio della gente che non desidera più.
Ma ora che sono proprietario di una funivia
andrò alla pesca d’ogni desiderio.
Scoprirò sopra quali acque sono nate queste nuvole.
Con dentro che pesci, di cosa era fatto il fondale.
Quali le correnti, l’altezza dei cavalloni.
Risalirò al raggio di sole che un giorno s’infilò nel mare,
come uno stecco piroettò,
e se ne uscì avvolto da una robina.

Tipo zucchero filato al gusto di pioggia.

(Meda, 6/11/2014)