Su tre lati argentini #3 (San Telmo)

Un uomo cammina nella notte tra Almagro e Avenida Corrientes con le mani che gli si stringono nelle tasche dell'impermeabile. Si chiama Enrique Cadicamo ma tutti lo chiamano Il Tano per via delle sue origini italiane. Scrive tanghi. Le parole dei tanghi. E a volte le firma Rosendo Luna, altre Yino Luzzi, altre ancora con il suo nome vero. Tano non lo usa mai per firmare le parole dei tanghi. 
L'umidità gli fa sciogliere la brillantina tra i capelli. Un tassista rallenta, si accosta, lo guarda dal finestrino e poi riparte. Cadicamo vuole pensare, e per pensare gli ci vogliono tempo e centinaia di passi. I lampioni di Buenos Aires e le loro ombre, di notte, fanno da complici ai cuori pesanti.
La sera è volata a guardare ballare la gente in compagnia di una bottiglia di vino. L'uomo è rimasto come al solito sconvolto da tutto quel movimento. Ha osservato con un po' di mestizia le scarpe sfrisate e consunte dei tangheri, i loro passi, i gomiti, i menti. Ogni tanto il grammofono risuonava di canzoni sue, di quelle per cui aveva messo insieme le parole tempo prima, e allora cercava di distrarsi, andava alla toilette, qualcuno in corridoio lo riconosceva e gli sorrideva minaccioso. Forse Cadicamo non ha mai amato il tango, e neppure riesce a capire come si possa ballare sopra tanta sofferenza.
In Argentina far piangere è un pregio e un mestiere. E a Enrique le storie tristi vengono bene da sempre. "Non cambiare, andresti in rovina" gli aveva detto qualcuno, una volta, al Caffè Dorrego. Quando Gardel aveva chiesto di incidere "Pompas de jabon" gli era tornata in mente quella frase che all'epoca aveva preso come una iattura. Gardel era il sogno, la voce, l'Argentina. 
Ora l'uomo attraversa una minuscola via dalle parti di Belgrano. Attorno a lui non vede quasi più nulla, i rumori giungono ovattati, la città sembra sparire dietro una cortina di sogno, diventa fatta solo di cose che non si possono toccare. Pensa a queste frasi, a come scriverle su un foglio: 

"La notte sembra un pozzo di ombre;
ed io cammino lentamente tra le ombre.
nel frattempo pioviggina
e sento le sue spine nel mio cuore...
In questa notte tanto fredda e tanto mia,
pensando sempre la stessa cosa, sprofondo
anche se vorrei strapparla,
rifiutarla e dimenticarla,
la ricordo ancor di più…"

Il portone sbatte alle sue spalle. Le suole sfregano senza fretta sopra le pietra fredda dei gradini. Una volta in casa si toglie l'impermeabile e lo appende all'attaccapanni di ferro che si nasconde dietro l'angolo della porta: è fradicio, e pesa. Sul tavolo del soggiorno una lettera con grafia femminile. 
Le altre parole vengono subito dopo, mentre dalla finestra guarda impaurito la strada da dove è appena venuto


"Pioviggina...
Solo e triste sul marciapiede
va questo cuore affranto,
come una casa abbandonata..."

Il tintinnio del collo di una bottiglia di rum contro il bordo di un bicchiere. 

"Pioviggina...
Tristezza...
Perfino il cielo si è messo a piangere!"

Cadicamo decide che ha pronto quel tango che Troilo gli ha chiesto un mese fa. Domani gli farà avere un telegramma con la prima strofa. Gli andrà bene. Al Pichuco va sempre bene tutto. Lui è uno di quelli a cui piace fare quel che sanno fare.
L'uomo si addormenta con la luce accesa, seduto composto sul divano, mentre tre le vie di Buenos Aires la pioggia si assottiglia in tanti fili di lana.


Mi trovo alla "Poesia", un locale che sull'insegna porta scritta la definizione di esquina de encuentro. La cameriera ritira i piatti. Io la guardo: ha i capelli color noce, un piercing all'ombelico e uno sulla nuca all'altezza della prima vertebra. "Cos'è la Garua?" le chiedo. Lei mima con le dita una specie di gocciolio. "La pioggerella fine fine, quella fastidiosa..."
In Calle Bolivar, nel cuore di San Telmo, invece ora c'è un sole che non scalda. Faccio qualche centinaio di metri e sbuco in Plaza Dorrego. Al centro un uomo e una donna ballano tango sopra una moquette bianco grigia che fa loro da pista. I vecchi palazzi, le vetrine degli antiquari e qualche passante sono il loro pubblico. Io penso a Cadicamo. E mentre seguo quei piedi strisciare con la suola sul pavimento, quelle quattro gambe rigide e tese intrecciarsi con quella grazia e con quella violenza, sono già sicuro di quello che vedo: pennelli. Lasciano segni per terra, riscrivono a caratteri enormi l'alfabeto della tristezza.  




[Enrique Cadicamo detto il Tano ha scritto "Garua" nel 1943, un tango musicato da Anibal Troilo. Come omaggio alla sua lunga carriera di autore e poeta il governo argentino nel 1987 lo dichiarò Ciudadano Ilustre de Buenos Aires e nel 1996 fu nominato Personalità Emerita della Cultura Argentina. Morì a 99 anni il 3 dicembre del 1999]     

Per lasciare una casa

Per lasciare una casa ci vuole molto scotch. 
Il primo tipo dev'essere marrone scuro, adesivo, arrotolato: serve per tenere insieme gli scatoloni, chiudere gli scatoloni, affrancare la confezione di detersivo in polvere che hai usato solamente una volta per lavare le mutande nel mastello e un sacco di altre cose che nelle condizioni in cui si trovano non potrebbero mai lasciare una casa. 
Il secondo tipo occorre sia di un giallo paglierino oppure color dell'ambra, di solito sta dentro una bottiglia trasparente o verde e serve per ritrovarsi nel pieno della notte a osservare muri spogli, camini incredibilmente puliti, ragnatele alle finestre e un sacco di vuoto che poi è un pieno di ricordi. 
Questa storia del vuoto è molto interessante ma incasinata. In qualche maniera c'entra sempre la musica. Voglio dire, avete presente la musica? Se la riduci ai minimi termini salta fuori che è un semplice alternarsi di suono e silenzio. Pieno e vuoto. Se non ci fosse il silenzio non ci capiresti nulla ma proprio nulla. Quel vuoto serve per sentire. Questa metafora mi sembra azzeccata perché è proprio quello che succede quando te ne stai seduto sopra uno sgabello bianco in compagnia dei tuoi due scotches (un plurale che Calboni pronuncerebbe così magnificamente) e ti prepari a lasciare una casa: tutto quello che è successo nel tempo in cui ci hai vissuto torna a suonare in un solo istante, tu lo senti distintamente, lo percepisci in tutte le sue sfumature e te lo godi in perfetta solitudine. La solitudine è un altro di quei vuoti indispensabili per apprezzare al meglio la musica delle persone amiche, degli amori, dei casini. Ma se ci mettiamo a parlare anche di solitudine non ce la caviamo più. Piuttosto, tornando al silenzio, mi viene in mente il sabato santo: a catechismo ci dicevano che il sabato santo è importante perché Gesù è dentro nel sepolcro e il mondo intero fa silenzio e che è importante far silenzio perché così è più bello gridare di gioia il giorno di Pasqua. E anche questa è una bella metafora perché vuol dire che il sepolcro è una specie di posto in cui si sta mezzi morti in attesa di risorgere: per esempio io adesso, prima di occupare la mia nuova casa, devo restare qualche giorno nella casa dei miei.

Per lasciare una casa serve radunare oggetti. Questi oggetti di solito sono molti, ma nella situazione in cui sei, vorresti fossero pochi. Allora ti ritrovi a chiederti quanto è molto e quanto è poco. In pratica discuti con te stesso riguardo alla relatività di molte cose. E anche questa è una bella metafora, perché quando lasci una casa non si sa come ma ti ritrovi a ragionare su cosa hai combinato nella vita: al primo sorso di scotch (del secondo tipo, ovviamente) ti pare di aver fatto moltissimo, all'ultimo pochissimo. Ma è una cosa relativa, l'abbiamo appena detto. Così vorresti avvolgerti il cervello con lo scotch (del primo tipo) per chiudere la bocca ai pensieri e lasciare andare le cose come devono andare. Ne viene fuori che si sta parecchio meglio.

Quando gli scotches sono terminati vuol dire che è arrivato il momento di lasciare la casa per davvero. Ormai è mattina e si deve compiere più volte la rampa delle scale. E' a questo punto che occorrono molti muscoli.
Il primo tipo di muscoli sono quelli delle braccia: tutta quella roba avvoltolata nello scotch bisogna sollevarla.
Il secondo tipo di muscoli sono quelli delle dita: prima di andarsene bisogna scrivere su un foglio tutte le cose che ci hanno fatto felici dentro quelle quattro mura.
Il terzo è il muscolo del cuore: lì c'è la speranza e il desiderio. La speranza di trovare prima o poi un posto che sia una vera casa, una di quelle in cui vorresti fermarti per sempre e metterci dentro tutti gli oggetti che vuoi, e il desiderio invece di non fermarsi mai, lasciare altre mille case, ogni volta con qualche oggetto in meno, in una specie di allenamento al contrario: meno peso metti sul bilanciere, più il tuo cuore diventa un muscolo invincibile.
Ma questa qui è una metafora un po' troppo complicata anche per me.