Guardami #Morir sì giovane


Secondo il vocabolario italiano Treccani, giovane è colui “che è nell'età giovane...che non ha ancora l'età per.. contrapposto a vecchio (anagraficamente)”. Per la società italiana, giovane ha due accezioni differenti: un uomo non appartenente alla casta è definito Giovane per giustificare il fatto che nonostante i suoi 40 anni ancora non si è seduto su alcuna sedia. Un uomo appartenente alla casta è definito Giovane per giustificare il fatto che nonostante i suoi 80 anni ancora non molla la sedia.

A questa (ed altre) verità, a questi moderni tempi italiani capaci di sovvertire ogni evidenza anagrafica, morale e sociale è offerto Morir sì giovane e in andropausa, piece col marchio di garanzia di Scena Verticale che il caro Dario De Luca oltre ad aver scritto (insieme a Giuseppe Vincenzi) interpreta e dirige. Con lui, a completare un palcoscenico tutto calabrese, la Omissis Mini Orchestra di Paolo Chiaia, Gianfranco De Franco, Giuseppe Oliveto, Emanuele Gallo, Francesco Montebello.
Un monologo che è commedia, una commedia che si fa canzone, una canzone che arretra a suono quando dialoga direttamente con il testo. Dario recita e canta, tutto sembra cucito perfettamente sulle sue corde, che sono quelle buffe e caustiche, tragicomiche, ironiche e non, della bella tradizione meridionale. Il sorriso che si trasforma in una smorfia amara sull'attuale condizione di un Paese dove s'è perso il senso del pudore e della vergogna. 
In più, la O.M.O., un ensamble di musicisti di origine controllata (e controllata bene), ottimi esecutori, bravi ad aver trasformato con i loro arrangiamenti canzoni all'apparenza semplici in qualcosa di per nulla scontato. E capaci, infine, di fare da più che valida spalla alle gag di Dario.

In meno di un anno lo spettacolo ha raccolto applausi in tutta Italia. E' stato ai Filodrammatici di Milano dal 12 al 17 marzo e si prepara a camminare ancora. Io, di mio, sono riuscito a vederlo due volte. Ma potrei ripetermi già il prossimo 18 maggio a Lecco (Teatro della Società) visto che annoiarsi è cosa dura con questi giovani teatranti che dall'andropausa, di sicuro quella artistica, sembrano ancora ben lontani.




Guardami #Blue Valentine

I have to sing goofy, devo cantare da stupido, dice Dean. Ha in mano un ukulele e vuole cantare qualcosa a Cindy che la faccia ballare. Si conosco da così poco. Lui attacca You always hurt the one you love, un classico blues che hanno rifatto in tanti. To hurt, transitivo: far male, ferire, provocare dolore. You always hurt the one you love. Ferisci sempre colui che ami. Non sono molto portato per gli aforismi in materia sentimentale, però, forse, quant'è triste e vero anche questo. Tutto sommato non c'è esperienza della nostra vita che non si possa affidare a un aforisma. Ecco, ovviamente non è una canzone a caso, quella che canta Dean. Del resto nulla è lasciato al caso da Derek Cianfrance nel dirigere Blue Valentine. Le parole migliori (e le uniche che abbia letto) su questa pellicola sono state scritte da Claudia Durastanti sul numero 704 del Mucchio. Io ci aggiungo che siamo di fronte a uno di quegli esempi in cui regia e sceneggiatura sembrano uscire dalla stessa luminosa intuizione, formatasi in un attimo. Di attimi è fatto il film. E in un attimo si capisce che un amore è al tramonto.

Prima scena: Cindy non vuole essere svegliata da suo marito Dean e dalla figlioletta Frankie, si alza a fatica, prepara i fiocchi d'avena, rimprovera Dean di comportarsi come un bambino ma si dimentica la cartella della piccola quando è già in macchina per portarla a scuola. 
In un attimo gli amori si trasformano nel loro opposto, in quel qualcosa di così sottile che c'era già dall'inizio, senza farsi vedere. Dean aveva fatto il bambino anche quella volta in cui Cindy l'aveva presentato ai suoi, si era messo a ridere per il buffo cognome della sua professoressa di biologia.
Blue Valentine, dunque, è la cronaca dell'attimo che separa inizio e fine, come se l'amore non avesse fasi intermedie, velocità di crociera, ma solo decolli e atterraggi. Inizio. Fine. Ti tengo stretta la mano. La ritiro appena me la sfiori, in auto, mentre stiamo viaggiando verso un motel in cui abbiamo deciso di ubriacarci e fare l'amore.

In una storia così è vano anche il tentativo, comprensibilmente umano, di trovare il colpevole. Un amore che naufraga in questo modo non ha quasi mai capitani che l'abbiano mandato a fondo. Qualcuno di noi è stato Dean, qualcun'altro Cindy. Non c'è chi abbia colpa. Questo è quello che fa di questo film (distribuito in Italia male e con due anni di ritardo) una storia triste. Il canone di tutte le storie che abbiamo sentito (o alla peggio vissuto) a proposito dell'amore perduto che strappa i capelli. 
       

Leggimi #Se ti abbraccio non aver paura

Un libro con la copertina verde e una moto. In Se ti abbraccio non aver paura Fulvio Ervas racconta il viaggio di Franco Antonello e di suo figlio Andrea, 18 anni, autistico da quando aveva trenta mesi. Una storia di viaggio dietro cui si nasconde il ben più lungo e tortuoso cammino di una vita da condividere con una bestia sconosciuta come l'autismo. L'indecifrabilità. 
Ne hanno parlato in tanti, qualcuno dei miei alza la mano e dice che ha visto un servizio in tv che ne parlava.
"Lo leggiamo insieme?"
"Sì."
Mica lo leggeranno tutti. Qualcuno è troppo pigro, qualcuno odia leggere, qualcuno pensa che queste sono cose noiose e da sfigati.
Ma come? Un padre e il suo figlio autistico prendono una moto e attraversano gli States, poi finiscono in Messico, in tutto il centro America, viaggiano in macchina in aereo e in nave, incontrano sciamani, poliziotti, indios, gente buona soprattutto, amici. Finiscono in Brasile per portare una lettera segreta... non mi pare un libro noioso. Infatti io lo divoro. E voglio sapere i miei ragazzi cosa ne pensano.

Di Andrea mi sono rimasti i comportamenti. Abbraccia tutti, è un ragazzo senza pregiudizio. (Marina)

Ho scoperto che Andrea ha sentimenti, cioè non è che non capisce quello che gli accade intorno ma al contrario è molto attento alle persone [...] Ho capito anche che i ragazzi autistici hanno una soglia molto bassa del dolore, come racconta il padre sull'aereo. (Aurora)

Un ragazzo autistico non riesce a comandare il suo corpo e non riesce ad esprimere quello che in realtà vorrebbe dire. (Manuel)

Come si diventa acustici (sic.)? (Andrea)

Mi si è stretto un nodo alla gola quando ho letto che la vita ha delle dimenticanze, una volta si dimentica un orecchio, una mano, un pezzetttino di cervello. (Francesca)

Non ho capito se l'autismo si possa in qualche modo migliorare. (Benedetta)

Andrea per colpa dell'autismo non potrà mai essere normale come tutti. (Elena)

Mi chiedo come riesce a essere sempre così felice. (Roberto)

Prima di leggere questo libro pensavo che i ragazzi autistici non capissero niente o quasi. Andrea mi ha fatto aprire gli occhi. (Edoardo)

Di Andrea mi rimane la sua fiducia infinita che ripone nel padre ascoltandolo con attenzione tutto quello che dice. (Andrea)

Io conosco una ragazza autistica, il suo pregio è quello di ricordarsi tutto, ogni minimo particolare. (Serena)

Adesso che è autistico potrà continuare ad avere una vita sociale? E soprattutto una sentimentale? (Gabriele)

Secondo me non è una malattia: con l'autismo si vede il mondo con occhi diversi (Susanna)

Se Andrea avesse toccato a me la pancia, mi sarei spaventata e forse avrei urlato, ma poi mi sarei tranquillizzata. (Alice)

Andre in modo particolare ama i colori e ci gioca: dentifricio, colluttorio, sapone e gelato, tentando sempre nuovi accordi cromatici. (Alessandra)

Anche col cibo, ad esempio la pizza, Andrea mangiava prima la mozzarella, poi la pasta della pizza e poi la crosta. (Benedetta)

Conoscevo un ragazzo che era autistico, e si comportava in modo strano, viveva nel suo mondo, tutto ciò che lo circondava era suo, e se gli dicevi che stava sbagliando allora si arrabbiava e sbatteva gli oggetti. (Lorena)

Posso testimoniare un'altra forma di disabilità: la sindrome di Smith Lemly Opitz; una malattia strana anch'essa. Mio fratello Simone è affetto da questa sindrome, non è facile conviverci, e stimo pienamente Franco per aver fatto fare a suo figlio un'esperienza così straordinaria. (Gabriele)

 

Hockey russo

Succede che vado a correggere i compiti dei miei alunni in montagna. La giornata è tersa, il vento gelido ha aperto il sipario su tutta la catena dei monti. Al rifugio prendo un caffè lungo e impugno la penna rossa, quando entrano due signori sulla sessantina, hanno gli scarponi ai piedi, forse vengono da una passeggiata. Oltre a loro ci siamo solo io e il gestore. Il più loquace dei due, basso, con pochi capelli bianchi e una faccia rotonda, prima di bere il caffè chiede di poter dire una cosa. "Prego" diciamo io e il gestore. "Vorrei dire a memoria la formazione della nazionale sovietica di hockey su ghiaccio anno 1963/1964." E la dice, solo che di cinque ne manca uno. Dice che se lo scorda sempre, che non riesce proprio a ricordarsi. 
Ovviamente si attacca bottone. Passeggiando gli è venuta in mente una partita storica, Urss-Canada, campionato del mondo 1963. All'epoca faceva il collegio dalle parti di Bergamo e insieme ai suoi compagni, davanti alla televisione, tifava Russia solo per fare un dispetto ai preti. 
Ora, quel signore non lo vedrò mai più e non so nemmeno come si chiama. Ma se mai dovesse capitare su questo blog potrà trovare qualche informazione in più.

La partita in questione è Urss-Canada del 17 marzo 1963, finale dei campionati mondiali giocati in Svezia. La probabile formazione doveva essere: Viktor Konovalenko, Aleksandr Ragulin, Eduardo Ivanov, Aleksandr Almetov, Vyacheslav Starshinov, Vladimir Yurzinov. E' una formazione probabile perché vin rete non si trova il tabellino della partita, ma solo l'All-Star del campionato russo di quegli anni (a questo link). A dire il vero lui ha parlato anche di un certo Vikulov (che però sembra aver avuto fortuna qualche anno più tardi), di un certo Akentief e di un georgiano che avrebbe dovuto finire in -ili ma di cui proprio non ho trovato nulla. 
Caro signore, mi perdoni, sono andato un po' a spanne.

L'amore del non appartenere

Era molto che non facevo il segno di croce. Altre volte, recentemente, mi ero trovato nella situazione di poterlo e forse di volerlo anche fare, ma ha sempre vinto la mia ostinazione, il mio impormi una certa coerenza di spirito e idee. Oggi, invece, davanti alla televisione, nel momento in cui il nuovo papa Francesco benediceva il mondo intero offrendo l'indulgenza plenaria (un bonus a cui non credo, mi sa tanto di videogioco in cui se sei bravo a passare lo schema ti regalano le vite che avevi perso), l'ho fatto di sfuggita, senza farmi vedere. Mi sono chiesto perché, se si trattasse di semplice suggestione mediatica o che altro. Di sicuro c'era anche quella, non ne ho dubbi. Ma i pensieri mi si erano già mossi prima, in quei minuti trascorsi tra la fumata bianca, l'annuncio dell'habemus papam e la comparsa del nuovo uomo vestito di bianco. E mi ero scoperto a pensare che cosa grandiosa fosse, questa, di un mondo intero attento a un balcone, a una città, a un puntino che ne diventa per un momento il centro. La piazza stracolma di persone, giunte lì per tanti motivi diversi. Ebbene, che cosa grande dev'essere questa fede, mi sono detto. Cosa può fare. Cosa può regalarci. La speranza. E insieme ho pensato a quale grande occasione è da sempre nelle mani della Chiesa: poter essere così sinceramente portatrice di speranza, di positività, di umanità. Mi sono chiesto anche dove stiano tutte le cose che non sopporto, di questa Chiesa, prima fra tutte il proselitismo. Come sarebbe indovinato, se ogni religione facesse a meno del proselitismo, se accettasse di esistere anche fino a quando dovesse rimanere con un solo credente. E spogliarsi, restare completamente nuda ammettendo ogni errore, ogni sbaglio, ogni silenzio, ogni verità sconfessata. Lì, con uno solo, rimasto a credere nella cosa più pura e utile a cui un essere umano possa mai aggrapparsi.


Un uomo è comparso sul balcone di San Pietro. Il cardinale francese Tauran. La sua fretta nel dire, una certa difficoltà a parlare, data dagli anni e dalla malattia. Mi ha commosso forse più delle parole del nuovo Papa. E poi, finalmente, questo cardinale argentino. Un nome nostro, Francesco. Ha parlato, ha detto bene, dirà altre cose. 

In cuor mio so che poco cambierà. Siamo tutti ansiosi di cambiamento. Vogliamo un Parlamento nuovo che finalmente sappia governare, un Papa nuovo che cambi il mondo (ma come?), vogliamo una vita diversa, migliore, ci stringiamo attorno alle immagini, ai corpi, alle voci che per un istante ce ne diano l'illusione. L'uomo sarà sempre uomo. Il mondo sempre mondo. Ci viene dato di assistere a un mutamento che c'è sempre e c'è a priori, secondo il disegno delle cose. Eppure, nonostante tutto, vedo l'uomo prima ancora di Dio. 
Due uomini ho incontrato stasera, che mi hanno trasmesso qualcosa che non so dire. E' come se per un attimo, nei loro limiti, avessi percepito l'uomo quando è al di là del bene (paradiso, santità, Gesù, la Madonna e quello che volete voi) e del male (la ricchezza, il potere, i pedofili e quello che volete voi).
Continuo a non sopportare l'anticlericalismo a priori. E il clericalismo a priori. Continuo a non voler credere che il Papa è sempre santo, i preti buoni, così come continuo a non voler credere che il Papa è sempre un ladro, i preti pedofili, e così via. Provo tristezza nei confronti di chi questa sera, dopo due minuti dall'elezione, già scriveva che Bergoglio ha qualche scheletro nell'armadio. E proverò tristezza di fronte a chi darà ragione a Bergoglio quando fra non molto, salvo miracoli, pronuncerà parole contro l'opportunità di riconoscere a due uomini o a due donne di amarsi e di sposarsi, contro il diritto di ogni uomo di decidere della propria fine. 
E' dentro questo non-schierarsi che vorrei trovare questa sera, anche in me, l'amore. Pur ammettendo, certo, il mio rammarico di non sentirmi parte, di non appartenere. Il che mi fa sentire solo, ma buono.
Ecco, come al solito mi si sono complicati i pensieri. Solo per dire che vado avanti a non credere, ma un po' meglio. E forse un po' meno.