Su tre lati argentini #2 (Rio de Janeiro - Buenos Aires)

Arrivarci dal Brasile.

Un grosso aeroplano si alza, si mette orizzontale e fila dritto. Ora è a diecimila metri sopra il Brasile. L’equatore una cosa superata. Lontano si fa un po’ più vicino, ha il suono del soffio, per la prima volta in vita tua sei oltre l’equatore, nell’emisfero australe. Le cose a testa in giù…
Guardi fuori: verde infinito, polmone del mondo. E pensi al tuo viaggio, a quello che ti aspetterà, alle cose sconosciute, se sarai in grado, se ti sentirai a tuo agio, se te la godrai, se il mondo nuovo ti sarà amico, se lo spagnolo lo parlerai o morirai di vergogna. Poi guardi il tuo cuore, pensi al cuore di tutti quelli che viaggiano, immersi come sono nell’euforia e nella domanda, nel coraggio e nell’incertezza. E’ un’amazzonia rossa, quel cuore, che come l’abbatti ricresce. Così piena d’ossigeno, eppure sempre in apnea.
Aeroporto di Rio de Janeiro, prigionieri dentro una gabbia di vetro e aria condizionata. Per uscirne ci vogliono dollari e tempo, due cose che voi non avete. Allora con lo sguardo cercate di arrivare il più lontano possibile: laggiù si alzano le colline e i primi grattacieli riflettono i raggi stanchi del sole. E’ un tramonto velocissimo. Poi buio e lucine.
Nei discorsi e negli sguardi dei brasiliani l’eco dei mondiali di calcio si è spento. Cerchi di immaginare cosa fosse quest’aeroporto due settimane fa e pensi a uomini e donne da ogni dove, squadre, euforia, speranze, soldi, televisioni, desideri, brasile-germania, pianti, proteste, brasile-olanda, delusioni. Il grande pallone, anni per gonfiarlo, così poco per farlo scoppiare. E dopo ogni cosa, la vita. Spostarsi, lavorare, tirare a campare. Mondiali o no quella donna laggiù con il grembiule e il berretto avrà continuato a servire centinaia di caffè al giorno dispensando almeno il doppio dei sorrisi. Avrà lavorato la sera della finale? Forse sì, e con un po’ di cinismo avrà detto “meglio così”, meglio che se la giochino Germania e Argentina, il mio paese in festa e io chiusa qui dentro è una cosa terribile. E alla fine avrà festeggiato comunque vedendo gli odiati vicini argentini buttare al vento tutto a pochi minuti dai rigori. Il non sopportarsi è una cosa molto sudamericana.
E’ notte quando v’imbarcate per l’ennesima volta. Un volo stracolmo, volti assonnati e sfatti di brasiliani, argentini e tre italiani. Lontano, per un attimo, fugge un po’ più in là. Poi si convince a farsi prendere, e tu lo vedi dall’alto, di un’arancione che brilla nell’inchiostro nero e si sparge per chilometri, finché toccate terra, il portellone si apre, ognuno è in silenzio, la gente cammina come se tutto fosse normale e invece no, nulla è normale quando scopri il volto di Lontano. Esiste davvero, non è un’invenzione: Buenos Aires.   

Ezeiza è la porta dell’Argentina. Un aeroporto dal nome di donna come Malpensa, ma con storie ben diverse da raccontare. So per esempio che nel giugno ’73 ce n’erano tre milioni di persone qui fuori, tre milioni ad aspettare Peron che tornava dall’esilio. Ma l’aereo che aspettavano non sarebbe atterrato. Per paura di brutte sorprese il presidente fu fatto atterrare altrove. Tutti restarono con la testa all’insù, tre milioni con la testa all’insù, fin quando dall’alto non arrivò Peron ma le pallottole dei cecchini. Erano appostati ovunque. Fecero tredici morti e centinaia di feriti. Erano della destra peronista e sparavano a quelli della sinistra. L’Argentina ripiombava in quella stanza nebbiosa chiamata instabilità per uscirne di lì a poco ammanettata dalla dittatura di Videla. Ezeiza, dunque. Un aeroporto, una donna, un massacro.

La città dorme. Immagino i bambini argentini nelle loro stanze, sotto le coperte, la maglia di Messi per pigiama. Lo immagino perché il tassista ha voluto parlare della finale, mentre un’autopista semivuota taglia la città da sud a nord, mostrandola stranamente povera. Fa freddo, fuori ci saranno non più di 5 gradi. “Quella notte era tutto bloccato” racconta l’uomo al volante, “la folla ci rendeva impossibile lavorare…” Dico che è normale quando c’è rabbia e delusione per la sconfitta. “Ma che!” risponde lui staccando una mano dal volante, “noi festeggiavamo!”
In calle Paraguay varco la soglia di un hotel dal nome francese pensando a un popolo capace di fare festa per una finale persa. Forse qui non hanno bisogno di vincere a tutti costi, gli basta sentirsi tra i migliori. Gli basta essere guardati.








Provviste #18


La mia lettura dell'estate, giù lungo la corrente del Po. Anzi, la Po (Francesco Guccini avrebbe da ridire su questa faccenda di chiamare i fiumi al femminile, "ma l'acqua è femmina" gli ribatte Paolo in un passo del libro). Rumiz informa, narra e racconta. Sono le tre cose che fanno un libro di viaggio. Sarà anche prolisso in alcuni punti, ma quanta cultura e sapienza, quanto aver visto che c'è in lui. Uomo che si mette in viaggio: tutto il Po navigabile da Pian del Re fino a Sansego, fino al mare aperto così spaventevole per chi per lunghi giorni ha avuto due argini dentro cui chiudere i propri orizzonti. Il fiume maltrattato, rene costretto a farsi carico dei mali di un Paese, strada d'acqua in cui l'uomo getta e da cui l'uomo toglie. Su tutto, il fascino di uno scorrere (parole, pensieri, Storia, popoli, cibo) vero e metaforico, per sempre allergico alla precisione della sua traiettoria:

"Un fiume che corre dritto verso il mare dà assai poco al mondo" avevo letto da qualche parte. [...] Un fiume rettilineo impazzisce, parte alla carica come un rinoceronte africano in una piantagione geometrica. Per questo il meandro è anche metafora grandiosa: la ricchezza dell'arrivo a Itaca sta negli infiniti giri che per anni Odisseo compie per raggiungerla. E davvero non c'è niente di peggio di una via tirata col righello, priva di paure, incidenti, errori e ritorni. Ma il fiume è anche narrazione: e poiché, nel discorso, meandro è sinonimo di tortuosità, digressione e intrico, ecco che censurare i meandri di una discussione equivale a castrarla del suo meglio. Sono le digressioni delle favole la cosa che piace di più ai bambini. E sono sempre i meandri a farci penetrare un romanzo con maggiore efficacia.

Ricordo quella gita sull'Adda, una domenica di giugno. Il colore dell'acqua, il sottile profilo dell'argine. Ancora non mi era capitato per le mani Morimondo. Ma l'avevo chiamato, ne sono sicuro.

Una frase: L'aria era di vetro, i pioppi nel vento facevano un brusio da mercato di paese e una luce color del tè stava ricoprendo ogni filo d'erba sull'argine. 

Su tre lati argentini #1 (Lisbona)

Lisbona. L’imprevisto.

Hai salutato l’Europa affacciandoti alla sua ultima finestra, quella in fondo al corridoio, lì da dove anche l’occhio più acuto non può scorgere altro che un infinito e sconosciuto mare.
I viaggi vivono d’imprevisti. E il viaggiatore li accoglie come una benedizione, il segno inequivocabile che la sua rotta ha una guida. E’ ad essa che egli accetta di sottostare: non padrone del viaggio, ma del viaggio garzone. Ogni volta, più di prima, apprendista.
E così una coincidenza saltata ti riporta a Lisbona per la terza volta. Nelle altre due occasioni viaggiavi con i tuoi genitori, stavi nel dolce fiume della tranquillità, accettavi il dono della curiosità, cedevi senza fretta alla bellezza di Lontano, divinità sfuggente e senza volto. Nei tuoi ricordi sbiaditi c’è solo il Tago, fiume largo, ultimo corridoio, comandante di un'armata di nostalgie che dalle colline scendono fino al mare. Ma tutto è ancora lì: il Barrio Alto, i festoni ai davanzali, i locali rumorosi, le auto che si stringono nelle vie facendosi spazio dove non ce n’è. Ogni cosa - che ci piaccia o no - vive al di là delle nostre dimenticanze.
E’ notte, il pensiero è per strada, illuminato dai lampioni, rotto dall’insistenza degli spacciatori che all’italiano offrono sempre la bamba migliore. Cammini e ti fischiano le orecchie, scendi con piccole mosse centinaia di gradini, in basso a una scalinata un papà fa dormire il suo bambino: “Dormi, sei in viaggio anche quando non ti muovi” gli dice tenendoselo stretto, e tutto resta come nei versi di Pessoa il poeta, seduto a un tavolino del caffè “A Brasileira”, immobile e con le gambe accavallate: 

Lontano da me in me esisto
fuori da chi io sono,
l'ombra e il movimento in cui consisto.
(F. Pessoa, Longe de mim, 1920)


Hai due compagni. Con loro attraversi Rua dos Correiros, Rua Augusta, Plaça do Comércio. E intanto parlate di figli da crescere, dell’egoismo di non mettere al mondo nessuno. Quante volte, in sere così fresche, davanti a un bicchiere, avete parlato con in testa il futuro. Futuro che a parlarne non si compie mai, la parola lo frena e voi vi sentite come la principessa Sherazade, credete che il racconto possa salvarvi dalla vita.
Infine vedete il mare, ve lo indica Re Giuseppe I a cavallo, e restate in silenzio. Il mare che qui si chiama Oceano Atlantico, è il vostro nuovo orizzonte. Il padre di tutti. L’imprevisto più bello.


Una lettera in volo

Qualche giorno fa viaggiavo a bordo di un aeroplano che da Buenos Aires mi avrebbe riportato in Italia. Ero con due amici, all’aeroporto di Ezeiza la signorina del check-in ci aveva assegnato tre posti vicini, ma una volta salito sull’aereo mi sono accorto che intere file erano rimaste libere. Ho chiesto all’assistente di volo, un uomo calvo e dall’accento romano, se mi fosse stato possibile occupare una delle file vuote. Ho ricevuto un sì deciso e gentile.
Prima di sedermi ho dato un’occhiata in giro: mi trovavo in coda, a poche file dall’ultima, ed ero felice. Mi piace la coda dell’aereo, la collego alla terza classe di un vecchio transatlantico, immagino sempre che ci piazzino gli spiantati e i ritardatari.
Quando l’aereo è decollato ho salutato con una strizzata d’occhi Buenos Aires, l’Argentina, l’inverno australe e tutti gli infiniti chilometri di asfalto che in tre settimane di viaggio avevo battezzato, l’ho fatto con una stretta al cuore, come se qualcuno da laggiù mi stesse guardando andar via dopo aver speso fino all’ultima goccia di sudore per convincermi a restare. Era intorno all’una. Un paio di ore dopo il Boeing è caduto nel torpore e le tendine degli oblò sono state abbassate per simulare la notte. Un notte finta in cui non riuscivo a dormire.
Poi all’improvviso mi sono ricordato della tendina chiusa e del finestrino. L’ho alzata, e fuori ho visto quello che in vita mia non avevo mai visto. Volavamo sopra l’oceano scuro appena oltre le coste brasiliane, e laggiù, a ovest, sulla fine del mondo, il sole dipingeva l’orizzonte col più incredibile dei rossi, un’infinita striscia di sangue che ridisegnava la curvatura terrestre facendomi intuire, come poche altre volte nella vita, l’esistenza di Dio. Il giorno si spostava un po’ più in là, correva sempre più a ovest fino a diventare est, per essere giorno altrove. E mentre la striscia si assottigliava e diventava di un rosa conchiglia ho pensato che quel sole che ora interpretava la più tragica delle morti l’avrei visto rinascere qualche ora dopo a Roma, in un’alba che si sarebbe rivelata pallida e afosa. Il mondo è una grande giostra, mi dicevo.
Per sicurezza non ho più abbassato la tendina. La notte si inspessiva, fissavo il vuoto imponendomi il sonno, quando l’occhio mi è caduto altrove, nello spazio vuoto tra il sedile davanti a me e quello reclinato al suo fianco. Era il posto di un argentino basso e dalla pelle olivastra, sulla quarantina, la testa grossa, una cuffia di tanti e corti capelli neri; portava una polo scura con il colletto alzato, l’avevo notata poco prima del decollo e mi aveva fatto ripensare a quella moda terribile diventata legge per colpa di un calciatore francese. Era un tipo inquieto: aveva a disposizione tutti i sedili della sua fila e da quando ci eravamo alzati in aria era stata una migrazione incessante in cerca del più comodo (per un paio d’ore aveva anche tagliato la testa al toro dormendo completamente sdraiato e occupandoli tutti). Ma da qualche minuto si era tranquillizzato e aveva scelto quello al centro.
Sono tornato a guardare verso di lui che aveva appena aperto un foglio mezzo spiegazzato, a righe, di quelli che si strappano dal quaderno. Quel foglio era una lettera. Era scritta in un castigliano semplice, a inchiostro nero, la grafia femminile. Era una lettera d’amore. L’ho capito con un tuffo al cuore dopo pochissime parole. Una lettera d’amore va sempre letta, che tu sia o non sia il destinatario. E questa parlava di litigi, momenti difficili, di una rottura. Parlava a lui ma anche a me, che insieme a uno sconosciuto leggevo riga per riga senza fretta: un segreto che si svelava per la prima volta. A tratti staccavo gli occhi, li mettevo sulla spalla di lui, oppure ne cercavo lo sguardo. Era in quei momenti che mi sentivo scoperto e il cuore mi batteva più forte. Entrare nella vita dagli altri, così da vicino, senza chiedere permesso, senza sentirsi in colpa. C’è così poca distanza, a volte, tra chi deruba e chi è derubato.
Lei continua ad amarlo. Crede che le cose possano migliorare stando insieme. Si rivolge a lui con quel vos che gli argentini usano al posto del tu, una cosa splendida, ha il sapore di altri tempi. Ho pensato a quanto sia magnifico trovarsi da soli sopra un aeroplano che ti sta portando dall’altra parte del mondo e poter leggere la lettera di una donna. Non credo mi sia mai capitato. Ho ricevuto sì lettere d’amore, la prima la ricordo ancora perfettamente, era scritta anche quella su un foglio di quaderno, di quelli con i buchi, color malva. L’ho sempre conservata in una specie di cassetto bunker, praticamente introvabile, un po’ per gelosia e un po’ per vergogna. Poi sono arrivati i telefoni cellulari. La memoria affidata ai cip, lo schermo consumato a furia di rileggere lo stesso messaggio, interpretarlo, impararlo a memoria come una litania o una formula magica che la faccia comparire esattamente lì, davanti a te, a dirti di persona le stesse cose. Mai però ho letto d’amore a bordo di un aereo. Per questo lo invidiavo: fuggire e sapere che qualcuno alle tua spalle ti aspetta. C’è qualcosa di più bello?
“Ti amerò sempre” proseguiva. Avevamo girato il foglio e attaccato a leggerne il retro. “Voglio che tu sia felice.” Non era granché originale, ma mi piaceva così. Ho immaginato chi potesse averla scritta, se era bella, se era una ragazzina oppure una donna in carriera ormai disabituata a usare carta e penna; mi sono chiesto se si trattasse di una relazione clandestina, segreta, oppure di un rapporto duraturo che andava spegnendosi, magari un matrimonio; ho provato a osservare la scena di lei che scrive in cucina, dentro un appartamento alla periferia di Buenos Aires, ma non sono riuscito a scegliere in che modo gliela possa aver consegnata: sulla porta di casa, guardandolo andar via, oppure all’aeroporto, all’ultimo secondo, dopo una corsa in taxi e con il fiatone che toglie le parole.
Quel che è certo è che lei sapeva della sua partenza. Nella lettera gli augura che questo tempo da passare lontano possa aiutarlo a scegliere se darle un’altra opportunità oppure no. Scrive con un tono gentile e premuroso e allo stesso tempo insistente. Arriva a supplicarlo di non farla soffrire, che qualsiasi sia la sua scelta gliela faccia sapere subito, anche da lontano. E io già da qualche riga ho iniziato a pormi la domanda più scontata: dove sta andando costui? A fare che? E soprattutto: perché non ha aperto subito la lettera ma ha aspettato tutte queste ore?
Più si avvicinava la fine più i caratteri si facevano grandi, l’interlinea aumentava, la scrittura si stortava. “Ti amo” ripetuto all’infinito, disperato, un po’ fanciullo. Mi mancava solo una cosa per dire di aver completato la mia lettura, la cosa più importante, quella senza la quale tutto sarebbe rimasto una beata invenzione: il nome di lei. Ho giurato a me stesso che non l’avrei mai dimenticato, che sarebbe rimasto per sempre in un angolo, in attesa di scriverci un libro o di incontrare una donna dallo stesso nome e sposarla. Ero certo ci fosse un motivo nascosto dietro al destino di capitare dentro a una cosa così. Ma ecco che quando mancava meno di un centimetro per poterlo leggere, quando già ero arrivato a scorgere il tua seguito dalla virgola, il foglio ha smesso di scorrere. Lui è rimasto immobile, evidentemente era giunto alla fine prima di me, aveva letto anche il p.s. che io solo intuivo.
Dal mio nascondiglio, fissando oltre il pertugio con più desiderio di prima, l’ho pregato di andare avanti per un solo centimetro. L’ho fatto con così tanta foga che per un attimo ho temuto di aver parlato. Ma l’uomo è restato senza muoversi per un tempo che mi è parso infinito. Poi finalmente si è mosso: eccolo, lo vedevo girare il foglio sulla prima pagina, osservarla, voltarla a testa in giù. E d’improvviso, senza che il mio cuore se lo potesse minimamente aspettare, appallottolare il foglio con entrambe le mani. E’ stato un gesto compostissimo, quasi rilassato, gli ho visto le dita grassocce stringere la carta fino a schiacciarla, sul medio della mano sinistra portava un grosso anello d’oro. Quando si è chinato per riporre la lettera tra i rifiuti il suo volto era annoiato, senza espressione. Si è alzato, dopo un minuto era di ritorno con un bicchiere di Fanta e dei salatini. Si è messo a guardare un film giapponese.

Adesso fuori dal finestrino vedevo la notte africana. Algeri dall’alto era un alveare di luci, le sue strade si perdevano nel deserto per chilometri. Le navi in rada mi apparivano lucciole sottili nel buio d’acqua. 
L'aereo era tornato vuoto come le ore, come i segreti che si perdono, come le domande senza risposta.