Una caramella al limone

Dentro alla moschea di Mustafa Pasha a Skopje, in Macedonia, sono stato avvicinato da un giovane pakistano con un copricapo turchese che come prima cosa mi ha chiesto: “Come ti senti?”. Ho risposto “molto bene”, ed era vero: ero seduto su una seggiola rossa accostata a un grosso finestrone tenuto spalancato per far girare aria. Guardavo fuori da quel finestrone e vedevo il tramonto con tutti quei colori a spargersi nel cielo, e in controluce il colle che cinge la città a occidente, sopra il quale non so chi e non so quando ha piazzato una croce enorme che negli anni è diventata uno dei simboli di Skopje (e quando dico enorme intendo grossa ma molto grossa). Mi piaceva l’idea che quel simbolo e la moschea da dove lo osservavo si facessero compagnia tutti i giorni, con qualsiasi tempo. 
Il ragazzo ha iniziato a parlare in un fitto inglese invitandomi a riflettere sul posto in cui mi trovavo, sulla bellezza della preghiera, su quello che mi aspetta dall’altra parte se avrò agito bene sulla Terra: usava la parola relax unita ad Allah, paradiso, giuste azioni. Invitava a dimenticare ogni cosa terrena. Faceva, insomma, una specie di catechismo. Lo stavo ad ascoltare mentre un altro uomo, vestito più o meno come lui, si avvicinava e si metteva sdraiato accanto a me. Ormai circondato, ho sentito i primi calori dell'imbarazzo. Non solo: in un pensiero un pochino più malvagio, ho creduto che quelle due persone volessero fare del proselitismo, convincermi di qualcosa, farmi passare dalla loro (che poi dire "farmi passare" significa che io sto già da qualche parte, quando non è così). Allora ho avuto l’istinto di mettere in campo la mia religione, giusto per chiarire che ero cristiano e che non c’era trippa per gatti (è una cosa un po’ triste, lo so, un po’ come quando cerchi di far capire più o meno esplicitamente che sei etero a un omosessuale che ti ha avvicinato per fare due chiacchiere - siamo deboli e umani, suvvia). Insomma, ho fatto presente che molte delle verità (o presunte tali) che mi stava dicendo sono cose in cui crediamo anche noi cristiani (Dio, il paradiso, il relax…). Ma io appunto non sono uno che crede. Al massimo sono uno – come ho sentito dire da Valerio Magrelli – “che vorrebbe non credere”. Ho sorriso tristemente dentro di me pensando alla mia tragica incoerenza (usi la religione quando ti fa comodo, questa è la verità, mi sono detto). Di contro il ragazzo non ha fatto una piega, ha proseguito con i suoi messaggi e mi ha invitato, una volta tornato in Italia, ad andare in visita alla grande moschea di Roma. A quel punto ho capito che un po’ di proselitismo in effetti lo stava facendo, tuttavia non gli potevo negare il tono amichevole, la serenità dello sguardo, la compostezza dei gesti. Gli ho promesso che sì, magari un giorno sarei andato anche alla moschea di Roma. Quando ho fatto per andarmene lui ha messo la mano in tasca e in segno di amicizia mi ha regalato una caramella (doveva essere molto goloso perché quella sera stessa, tre le viuzze della città vecchia, accompagnato dagli altri suoi fratelli barbuti, l’avrei rivisto a un banco dei gelati portarsi via un cono al cioccolato). Era una caramella gommosa e rettangolare avvolta da una carta grigia con il disegno di un limone. L’ho messa in tasca ringraziandolo, ho pronunciato un terribile inshallah, sono uscito e ho raggiunto i miei amici.
Camminavo con loro lungo una delle strade che scende verso il grande bazar quando mi sono ricordato che i miei occhiali da sole erano rimasti di fianco a una vecchia copia del Corano, così ho fatto immediatamente dietrofront, sono tornato davanti all’ingresso, ho tolto nuovamente le scarpe e ho camminato per la seconda volta in pochi minuti sui tappeti che ricoprono per intero il pavimento della moschea. Ora si era riempita di fedeli giunti per la preghiera della sera. Da visitatore mi stavo trasformando in disturbatore. E a quel punto non ho potuto scacciare un’ipotesi quantomeno imbarazzante: l’amico pakistano, vedendomi tornare, avrebbe potuto pensare a una mia conversione improvvisa, a un miracolo di Allah, al concreto successo della sua opera di predicazione. Come spiegargli che ero tornato solo per i miei Ray Ban blu elettrico? Con quale coraggio sbandieravo la mia venialità terrena dopo tutti i suoi discorsi? Rosso di vergogna per aver appena attraversato tutta la sala, con una folla di persone inginocchiate rivolte verso di me, mi sono girato e ho scorto il suo viso sorridente. Ho risposto con un cenno della mano, forse ho anche mosso le labbra in un timidissimo “ciao…”, poi ancora più rosso ho chinato il capo e sono scappato fuori. Mentre l’aria fresca della sera mi asciugava la fronte, stuzzicato dai rimproveri benevoli del mio amico Paolo, ricordo di aver pensato per la prima volta nella vita al valore sociale delle cordicelle colorate che mia madre si mette al collo per non perdere gli occhiali.
Il giorno successivo mi trovavo sulle sponde del lago Matka, un canyon dalle acque verdi e calmissime a pochi chilometri da Skopje. Nel piccolo monastero intitolato a Sant’Andrea ho notato questa icona di fronte alla quale i fedeli avevano lasciato monete, rosari, fiori ma soprattutto caramelle. Non so se esse fossero doni di bambini o se più in generale si trattasse di una consuetudine ortodossa. In tasca tasca ho ritrovato la caramella al limone del pomeriggio prima e l’ho regalata alla Madonna. Ovviamente non è stato un gesto di fede (di fronte a un’icona come a una copia del Corano sei solo un curioso, mi dicevo). Mi piaceva solo pensare che una caramella arrivata dal Pakistan nelle tasche di un musulmano fosse finita sopra un piccolo altarino di una chiesa cristiana. E’ stato un gesto di amicizia, come quello che io avevo ricevuto. Come quella grande croce che dall’alto della collina ogni giorno fa compagnia al minareto sotto di sé.