Una guerra contro il tempo

Ovviamente tutti abbiamo in mente l'inizio dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni: "Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno..." e via così. Ma quello non è mica l'inizio. Sono solo le prime righe del primo capitolo. Prima c'è l'introduzione: sono tre paginette di cui tutti ci dimentichiamo volentieri anche perché, come vedremo fra poco, attaccano molto meno poeticamente e con parole ben più difficili rispetto all'incipit che abbiamo malvolentieri imparato a scuola. Questa introduzione però ha una sua utilità, ossia serve sostanzialmente a due cose: da una parte permette a Manzoni di creare il famoso gioco del manoscritto (vi ricordate? Manzoni dice di non essere l'autore del racconto di Renzo e Lucia ma solo colui che, ritrovato un vecchio manoscritto del '600, decide di riscrivere la storia che esso contiene utilizzando un linguaggio più comprensibile), dall'altra presenta delle considerazioni dell'autore riguardo alla Storia (quella con la S maiuscola appunto) tutt'altro che banali.
Il finto manoscritto, che Manzoni avrebbe ritrovato chissà dove, inizia così (faccio una parafrasi al volo visto che l'orginale, ovviamente, è in un difficile italiano secentesco):

"La Storia si può definire un'importante guerra contro il tempo, perché sottraendogli gli anni che sono ormai suoi prigionieri, già morti li richiama in vita, li passa in rassegna e li schiera di nuovo in battaglia. Ma gli storici che in tale lotta raccolgono grandi successi e gloria, tolgono al tempo soltanto i bottini più ricchi, perché raccontano e ricordano con i loro scritti solamente le imprese dei Principi, dei potenti, dei personaggi più illustri... "

Pensavo a queste righe una domenica di fine giugno mentre me ne stavo seduto con la macchina fotografica al collo sul sagrato di una piccola chiesa di paese, non un capolavoro architettonico, anonima, ma dall'aspetto famigliare. Era la chiesetta di Tornavento, una frazione del comune lombardo di Lonate Pozzolo (Varese), a due passi dallo scalo internazionale di Malpensa. Di lì a poco avrebbero fatto la loro irruzione nella piazzetta (splendida, con vista sulla valle del Ticino e sul Monte Rosa) uomini e donne vestiti del '600 con tanto di moschetti, spade, picche e persino cannoni. Aveva così inizio la XX edizione della rievocazione storica della battaglia di Tornavento. 
Perché pensavo alle parole del Manzoni? Non tanto perché i figuranti che comparivano in piazza erano su per giù vestiti come i personaggi del suo romanzo, ma perché mi ero messo a ragionare su che senso abbiano queste rievocazioni storiche. 
Premessa: il 22 giugno 1636 nei pressi di questo piccolo borgo avvenne una battaglia tra francesi e spagnoli, all'epoca impegnati nella guerra dei trent'anni (esatto, la stessa che si cita nei Promessi). Fu una battaglia piuttosto sanguinosa, ma sinceramente viene difficile considerarla un episodio di vitale importanza nella storia italiana ed europea. Eppure da vent'anni qualcuno spende del tempo e del denaro per rievocarlo. Perché? Ci potrebbero essere mille perché, ma a me cinicamente ne viene in mente per primo uno: perché, se non fosse per questa battaglia, Tornavento resterebbe nascosto nell'anonimato più totale. C'è qualcosa si sbagliato in questo? Assolutamente no, anzi. E' sempre questione di prospettive: per il piccolo (paese), il piccolo (episodio storico) è qualcosa di grande che lo aiuta a sentirsi meno piccolo. Quella domenica, la guerra contro il tempo si è ripetuta: gli anni già morti vengono passati in rassegna e schierati di nuovo in battaglia. Ma non è vero che al tempo si tolgono solo i bottini più ricchi: c'è chi ha bisogno del bottino più povero per sentirsi (giustamente) importante.
 















Un sacro disordine

Targu Neamt, regione della Moldavia, nord est della Romania. E' un inizio d'anno gelido, il cielo è quasi sempre coperto, la luce dura poche ore. Da Bucarest sono risalito fino alla città di Iasi per ritrovare una persona che non vedevo da quando ero piccolo. L'ho trovata, come se il tempo non fosse passato per nulla. Insieme abbiamo mangiato una fetta di panettone e ci siamo parlati a lungo mentre fuori dalla finestra, lontano a ovest, il manto di nubi finiva  e il cielo accennava un tramonto. 
Sulla strada del ritorno un cartello segnala un monastero. Ci sono cartelli così in tutta la Romania: è probabile siano sorti più monasteri qui che in tutto il resto dell'est Europa. Quello di Targu Neamt non è certamente il più bello: giorni prima, nella regione della Bucovina al confine con l'Ucraina, Voronet si è presentato ai miei occhi come una meraviglia che forse non sarò mai in grado di spiegare. A Targu Neamt, però, mi sono imbattutto in un posto davvero bizzarro.
La struttura del monastero rispetta la tradizione: forti mura perimetrali, un grande spiazzo interno con al centro l'antica chiesa le cui pareti interne non hanno un centimetro di intonaco che non sia affrescato. Monaci con lunghi e pesanti soprabiti neri escono dalle loro stanze, attraversano lo spiazzo bianco di neve e ci si infilano dentro. I suoni sono ovattati: scarponi che scricchiolano sulla neve fresca, cani in lontananza, una mamma che sgrida una bambina. Tante famiglie approfittano delle vacanze di Natale per visitare i luoghi di una fede che in Romania resta, al contrario che altrove, forte e salda.
La sorpresa per me arriva una volta uscito dal monastero. Nel piazzale esterno, oltre le poche auto parcheggiate, c'è una struttura circolare con un'alta cupola sovrastante. Parrebbe un battistero o una cose dal genere, invece da lontano, sopra la porta d'ingresso, leggo la scritta "libreria". Quando entro non ci voglio credere. Sotto una volta finemente affrescata c'è tutto. Ossia: tutto. Un bazar in piena regola, senza il minimo concetto di ordine. Migliaia di libri accatastati, icone, crocifissi ma anche cassette di frutta e verdura, martelli, caramelle, un frigorifero con i gelati, quadri, pacchetti di patatine, rullini fotografici, bibite, scarpe, attrezzi da lavoro. Torno a guardare il soffitto per qualche secondo, poi riabbasso gli occhi: è ancora tutto lì. Un prete barbuto e con indosso un maglione liso si aggira in questo marasma con la stessa compostezza di un custode del Louvre. Cerco di toccare tutto, pesco libri a caso: biografie di monaci, spiritualità, storia nazionale. Più in là: paramenti sacri e abiti comuni. Me ne vado senza la minima idea del luogo e della sua funzione. Una cosa è certa: quelle figure angeliche in alto, quel casino in basso, una metafora del cosmo di cui ho trattenuto un vago senso di sacro.