Eleonor

Eleonor aveva appena smollato una sgradevole impellicciata all’angolo tra la Wellington e la Little Queen. Quella tipa aveva pure preteso i dieci scellini che le venivano di resto, senza dimostrare la minima solidarietà femminile verso l’unica tassista donna di tutta Leeds. “Crèpaci, dentro la tua pelliccia” mormorò a labbra strette Eleonor mentre ingranava la prima e puntava la circonvallazione.
Dal finestrino abbassato usciva il fumo della sua Dunhill ed entrava pioggia mista a ghiaccio. Aveva i piedi congelati senza sapere il perché. Per fortuna il turno era finito, non restava che tornarsene a casa, stendersi sul divano sotto un paio di copertoni di lana e accendere su Match of the Day per scoprire com’era andata la trasferta dei ragazzi a Londra, in casa di quei fottuti ebrei del Tottenham. La sola idea di essere saliti a cinque punti dall’Everton eccitava Eleonor. Non chiedeva altro al suo sabato sera. Nient’altro. Solo una classifica migliore per continuare a sperare nel titolo.
Ma poi un braccio sbucò dal marciapiede. Era di un uomo alto col cappello, immobile sotto la pioggia dentro un trench grigio polvere. Per un istante Eleonor fu tentata di dare gas e lasciarlo lì dov’era: agli highlights mancavano appena quindici minuti, massimo venti se avessero esagerato con gli spot pubblicitari. Qualcosa invece la spinse a frenare e accostare. L’ultimo, si disse, l’ultimo e poi non se ne parla più.
“Buonasera, York Street per favore” telegrafò l’uomo. Era rilassato e più vecchio di quanto Eleonor avesse pensato in un primo momento. Cinquanta più o meno, e due baffi grigi. Tolse il cappello. Lei non disse nulla, accese l’insegna gialla e invertì il senso di marcia nascondendo il disappunto. Con quel traffico ci sarebbero voluti non meno di venti minuti per arrivare dall’altra parte della città. 
Al primo semaforo alzò la mano e sistemò lo specchietto retrovisore. Ormai ci aveva rinunciato e guidava senza correre, la nuca abbandonata al poggia testa. Aveva la sensazione di essersi fatta contagiare dalla rilassatezza di quell’uomo che si era adagiato sul sedile con entrambe le mani sulle ginocchia e lo sguardo perso al di là del finestrino. Alla sua destra c’era un pacchetto, la carta era di un rosso lucido e dal fiocco di raso blu pendeva un biglietto a forma di cuore.
“Cazzo, San Valentino…” pensò Eleonor. Strinse le mani al volante, poi si portò la destra sulla bocca per obbligarsi a tacere. Porca troia. Se l’era completamente dimenticato.  
Pensò all’ultima volta che lo aveva sentito, due giorni prima, e lui era stato al solito troppo carino e maledettamente garbato. Com’è che era andata a prendersi quel borghesuccio senza carattere, tutto pettinato bene e con le unghie pulite? Si erano conosciuti due mesi prima durante un turno di notte. Era entrata in un caffè dalle parti del museo, il locale era deserto e lui se ne stava seduto davanti a un latte macchiato lasciato a metà. Avevano parlato per un’ora buona e poi lei si era offerta di portarlo a casa senza fargli pagare la corsa, ma poi si era pentita perché il tizio abitava in un bel quartiere dietro la Querry House.
Si erano rivisti. Lei lo andava a prendere al campus e poi parcheggiavano dalle parti dello stadio fino all’ora di cena. Il ragazzino aveva appena diciotto anni, non diceva nulla e giocava a fare il timido. Ora che ci pensava, Eleonor proprio non riusciva a spiegarsi come avesse fatto a uscire per due interi mesi con un tipo del genere. Per un istante lo rivide dentro a uno di quei maglioni orribili con lo stemma del college e sentì persino di odiarlo.
A questo punto la giornata era andata a farsi fottere. Se anche si fosse concessa il divano, la coperta e lo United, Eleonor sapeva che si sarebbe sentita in colpa. Lui le aveva dato appuntamento per quella sera alle sette al solito posto, “ho una sorpresa per te” aveva detto prima di riattaccare, ma lei in silenzio aveva già deciso di non presentarsi.

“Certo che ne è passato di tempo da quando in questa città si lavorava per davvero”. L’uomo aveva rotto il silenzio ed Eleonor tornò a guardare il volante con un po’ di spavento. Fuori dal finestrino centinaia di coppie abbracciate affrontavano l’ingresso dei pub pronte a giocarsi lo stipendio settimanale.
“E’ sabato, signore. Si deve bere” concluse intristendosi Eleonor. Poi deglutì.
“Possibile che i giovani d’oggi non abbiano in testa nient’altro che musica e birra?” ribatté lui.
Eleonor non aveva la benché minima voglia di difendere la vita delle persone normali contro le alitate benpensanti di un vecchio cinquantenne in trench. Non fosse stata così stanca ci sarebbe stata anche lei in mezzo a tutta quella gente, appoggiata al bancone e con della musica, oh sì, con della maleodorante musica a volumi assurdi che le stordisse i timpani. Sarebbe stato un bel modo per lasciarsi alle spalle una delle relazioni più inutili che avesse avuto negli ultimi quindici anni.
L’uomo adesso aveva voglia di parlare.
“Non me la prendo con lei signorina, ma dica ai suoi amici là fuori di iniziare a rimboccarsi le maniche o la nostra Inghilterra diventerà un letamaio.”
Di nuovo non si sforzò, Eleonor. Si limitò a fulminarlo dallo specchietto con i suoi tondi occhi neri. E lui si sentì piccolo e vulnerabile, pronto a ritrattare e a farsi mansueto.
“Nulla in programma per San Valentino?” chiese allora l’uomo per salvare la discussione.
“Nossignore, nulla…” rispose Eleonor.
“Mi permetta allora di offrirle un’opzione…” disse l’uomo mettendo mano al taschino interno del cappotto. “Prenda, li ho appena sequestrati a mio figlio. In sei mesi di college il signorino non si è ancora degnato di dare un esame. Non crederà che io e sua madre sborsiamo migliaia di sterline per farlo ubriacare ai concerti rock”. Tra medio e indice stringeva un paio di biglietti lunghi e stretti. Li alzò per metterli bene in vista, poi li adagiò sul sedile vuoto di fianco a Eleonor.
“Ci vada con chi vuole, se vuole…” aggiunse l’uomo.
Eleonor tentò di dire qualcosa ma era troppo impegnata a cercare di leggere quello che c’era scritto sopra quelle due striscioline di carta giallognola. Non ci riuscì.
“Non si faccia problemi, signorina. Mia moglie cucina dell’arrosto troppo buono per farmi anche solo prendere in considerazione la bizzarra ipotesi di andare a rendere omaggio a questi…” l’uomo si era chinato in avanti e aveva ripreso in mano uno dei due biglietti per leggerci: “The Who!”
Non ci poteva credere: gli Who. Pete Townshend, Roger Daltrey, John Entwistle, Keith Moon. La sola formazione che valesse la pena ricordare a memoria dopo l’undici titolare di Don Revie, naturalmente. Il figlio di quell'uomo ne sapeva, pensò Eleonor. 
Ora sì che le cose si stavano mettendo per il verso giusto. Forse la serata sarebbe potuta risorgere.
“Beh, ma non… non credo di poter accettare signor…”
“Barrass signorina, Benjamin Barrass”.
A sentire quel cognome il cuore di Eleonor diede un sussulto e grippò.
“Barrass?” chiese allora con la voce strozzata e le labbra ridotte a una fessura.  
“Barrass, sì, con due esse finali” rispose l’uomo.
Inchiodò. Il paraurti si fermò giusto a una cicca di sigaretta dalla Ford Zodiac che li precedeva.
“Tutto bene signorina?”
Eleonor abbassò il finestrino e cercò roba utile per respirare. Passarono trenta  secondi, poi il semaforo scattò sul verde ma lei non si mosse.
“Insomma signorina, se c’è qualcosa che non va me lo deve dire!”
“Mi scusi” disse Eleonor, mise in marcia e svoltò a destra in York Street. Avevano appena passato la Querry House.
“Ecco, poco oltre la panetteria va benissimo” indicò il signor Barrass. Per Eleonor fu la conferma definitiva.
Il taxi si fermò davanti al portone del civico 115. Un elegante palazzo di tre piani con gli scalini in marmo, il citofono illuminato e tutto il resto. L’uomo le disse di tenersi la mezza sterlina di mancia.
“Allora se dovesse decidere di andarci, si diverta anche per me…” scherzò con un piede già fuori dalla portiera e il pacchetto rosso tra le mani.
“Grazie signore. Mi spiace per suo figlio…”
Le parole di Eleonor uscirono distratte. Un rimasuglio di cortesia sbucato fuori dal nugolo di pensieri che le invadeva le pupille.

Il concerto doveva essere appena finito. I ragazzi uscivano dal College cacciando grida e spintonandosi. Qualcuno sventolava brandelli sfilacciati di Union Jack. Le prime motociclette si accesero.
Ernie ed Eleonor erano sdraiati sui sedili posteriori del taxi. Nudi e avvolti da una coperta ruvida che puzzava di benzina.
Quando sentirono le prime voci invadere il silenzio del parcheggio si rannicchiarono uno contro l’altro per non essere visti. Risero e si ribaciarono. Poi parlarono sottovoce.
“Non graffiarmi i piedi…” fece Ernie.
“Cristo, signorino Barrass, quanto è delicato lei!” sbottò Eleonor con voce buffa prima di rifilargli una sberla sulla chiappa gelida.
Risero di nuovo. La macchina a fianco mise in moto e se ne andò.
“Adesso però mi devi dire cos’hai fatto in questi sei mesi, visto che alla facoltà di economia non ti hanno praticamente mai visto”.
Il taxi rimase in silenzio. A dire il vero Eleonor non voleva sapere proprio nulla di Ernie. Non voleva sapere chi era davvero, almeno fino a quando non avrebbe fatto giorno.
Le urla di eccitazione da fuori si fecero più forti. Sentirono una mano sbattere sul cofano con un tonfo sordo. Tre ragazzi ubriachi si allontanarono barcollando.
“Certo che… Essere venuti sin qui” lasciò in sospeso Eleonor. “Potevamo almeno sfruttarli i biglietti di tuo padre.”
“Sei stata tu a baciarmi per prima… Io avevo già aperto la portiera” convenne Ernie.
Era vero, pensò Eleonor. Alla fine non aveva saputo resistere, era stato così eccitante scoprire che quel ragazzino con la riga da parte non era chi diceva di essere.
“Qualcosa mi dice che invece malediremo questa scopata per i prossimi cinquecento San Valentino che ci toccherà sopportare” disse lei provando a immaginare un futuro. “Non essere entrati a un concerto degli Who pur avendo i biglietti! Se mio cugino Pete lo viene a sapere mi ammazza”.
Ernie Barrass teneva gli occhi chiusi. Serrò il braccio attorno al collo di lei e rise dal naso.
“Che ne sai, magari lo hanno registrato, ci faranno un disco e noi lo potremo riascoltare ogni volta che ne avremo voglia”.

Eleonor allungò il suo braccio muscoloso in cerca delle sigarette. Ne accese una scottandosi con il fiammifero. Si ricordò che ancora non sapeva quanti punti ci fossero tra la sua squadra e la cima della classifica.         


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