Quando un cieco
piange
I
libri di antropologia raccontano che nelle società tradizionali della Nuova
Guinea, quando due appartenenti a tribù rivali s’incontrano al di fuori dei
loro rispettivi villaggi, danno avvio a una lunga discussione per cercare di
stabilire se abbiano tra loro qualche parente in comune. Se poi proprio non ne
trovano, allora si scannano a vicenda.
Il signor Galileo,
diffidente e poco avvezzo alle visite, sospettoso di quella macchia grigiastra
che scorgeva attraverso lo spioncino, mise in atto più o meno la stessa tecnica
aborigena finché, dopo aver indagato ogni grado di parentela dell’ospite e
averne concluso che si trattava di suo figlio, aprì la porta.
“Dov’è finito il tuo
ordine, papà?” indagò Bellarmino tagliando la soffitta in due falcate fino a
raggiungere la finestra. Ispezionava tutto con un viso da rapace notturno, le
pupille aperte come periscopi, evitando di proposito gli occhi del padre. Gli
doleva constatare, sugli angoli alle pareti, la capillarità con cui si stavano
distribuendo frange di ragnatele tanto spesse da far pensare allo zucchero
filato.
“Ultimamente ho avuto
poco tempo…” rispose il signor Galileo, ancora immobile nei pressi della porta.
Effettivamente in poco tempo la sua soffitta si era ingarbugliata senza che lui
se ne fosse ancora accorto.
“Il tuo cane?” chiese
Bellarmino riattizzando il colloquio. Ora stava seduto sulla poltrona come un
uomo addestrato al potere. Solo ogni tanto quel suo agitare il polso per far
scivolare l’orologio un po’ più giù gli restituiva i tratti della persona che
un tempo era stata giovane e semplice.
“Non so, non torna da
due giorni…” ribatté Galileo con una voce leggermente strozzata ma decisa.
“Giovedì abbiamo pranzato, poi lui è uscito e adesso non so.”
Bellarmino passò a
una voce del tutto accomodante, eppure più volitiva: “Sarai sereno, spero. Quel
cane era insolente. Per non parlare di quello che oggigiorno costa mantenere
una bestia.”
“Ma senza di lui
faccio fatica a far tutto” spiegò il signor Galileo senza nemmeno accennare a
quella cosa tra uomo e animale catalogata sotto la voce “amicizia”.
“A proposito di
quello che riesci o non riesci a fare: ho parlato con il medico. Dice che la
tua vista è definitivamente compromessa.”
“Ma, è molto che non
mi fa visita.”
“Appunto, sono stato
da lui ieri. E secondo il suo parere, arrivati a questo punto, la schermatura
della retina dovrebbe aver già raggiunto l’ultimo stadio.”
“Beh, insomma… ultimo
stadio. Non esageriamo.”
“Quanti sono questi?”
reagì fulmineo Bellarmino.
“Quali?”
“Questi!”
Nell’aria sbandierava
quattro dita a ventaglio. Non arrivò risposta.
“Bene. A questo punto
mi sembra inutile andare oltre” concluse riabbassando la mano con la mimica
severa dello scienziato che ha dimostrato senza sforzo la sua teoria.
Quando, tre giorni
dopo, il signor Galileo si ritrovò nella stanza 102 di una clinica del centro,
non ebbe più alcun dubbio sul perché suo figlio si fosse dimostrato tanto
risoluto nel sostenere che non poteva più abitare da solo: l’aveva spedito lì
per impossessarsi della sua soffitta e metterla nelle mani della sua società
immobiliare, azienda per la quale – Galileo lo ricordava – aveva fatto anche da
garante al tempo in cui il ragazzo doveva “farsi”.

“Porti sempre con sé
quel telecomando. Il tasto centrale chiama l’infermiera” disse una voce ruvida
che proveniva dalla porta.
“Buongiorno” si
affrettò a replicare Galileo voltandosi in quella direzione.
“Sto nella stanza
accanto” proseguì l’uomo come se non avesse sentito il saluto. “Ormai qui sono
di casa, perciò se ha bisogno di favori o cose del genere, chieda a me.
Qualcosa le costerà, ma poco…”
“Capisco. Beh,
signore, ne terrò conto.” Galileo, nella penombra, distingueva appena una
figura bassa e magra, con quello che sembrava un bastone.
“Mi pare di intuire
che siamo qui per lo stesso motivo” riattaccò lo sconosciuto.
“Se è vero quello che
dice, non mi capacito di come possa rendersene conto…” fece Galileo, stupito.
“Fiuto” disse, “Sono un cieco e il mio mondo è pallido
quando un cieco piange…” recitò poi con la voce grossa.
“Come?”
“Nulla, parole di
altri. Si chiamano Deep Purple.”
Tre minuti dopo
Galileo era nella stanza 103, quella a fianco, ad ascoltare le parole di una
canzone rock da un disco che il suo corridoio vicino di camere aveva presentato
come una prima stampa sì, ma polacca, per cui di scarso valore. Aveva anche
raccontato che risiedeva nella pensione da ormai cinque anni, un lusso pagato
interamente con l’eredità di una zia, ma che durante il giorno usciva per
occuparsi di questioni molto importanti.
“Dalla nascita?” osò
chiedere il signor Galileo ora che si sentiva un po’ più in confidenza. “Voglio
dire… la vista…”
“Sì. Lei sembra uno
nuovo, invece. Pesta ancora contro parecchi spigoli…”
“Ha ragione. Diciamo ipovedente
. Per adesso, luci e ombre rimangono.”
Un abbaiare canino
proveniente dalla strada destò l’attenzione dei due. Il cieco, con tutta la sua
esperienza, guidò il quasi-cieco sul balconcino della stanza. Le loro pelli si
scaldarono con i raggi del sole e Galileo abbassò lo sguardo senza riconoscere
nessuna forma.
“Galileo, sei tu?”
gridò a voce alta l’uomo.
Quando Galileo, il
cane, riconobbe il volto del Gracco a fianco di quello del padrone capì che le
cose erano notevolmente cambiate nei giorni in cui era stato lontano.
“Dev’essere il mio
cane! Mancava da un po’…” disse Galileo, l’uomo, preso da un’istantanea
euforia.
“Quest’odore non mi è
nuovo” ribatté il Gracco scuotendo le narici come un golden retriever.
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