Via, via,
vieni via con me.
Un mese dopo i nostri personaggi erano ancora tutti
vivi. Galileo, il cane, si premurava di fare due abbaiate di conforto, ogni
giorno, sotto il terrazzino della stanza 102 della pensione dove il suo padrone
Galileo si era da poco trasferito. Quest’ultimo, però, si trovava per la
maggior parte del tempo nella stanza 103, e certo non poteva sentire quei
latrati canini, impegnate com’erano le sue orecchie in compiti nuovi e di
grande responsabilità. Il Gracco, lo aveva assoldato per riordinare la montagna
di dischi che sorgeva intorno al suo letto: “Prendi a caso da uno degli
scatoloni,” aveva detto “metti il disco sul piatto, appoggiaci sopra la puntina
e stai in ascolto”. Per lui, che nella sua vita aveva portato un disco fino
alla fine forse una ventina di volte e non di più, fu come iscriversi al Conservatorio.
Imparò a selezionare e accatastare: il rock (tamburi pesanti e suoni ruvidi)
andava sul comodino di destra, il blues (l’incedere di un cavallo al galoppo)
sopra quello di sinistra, l’italiana sotto la finestra, la classica di fianco
alla porta del bagno, il jazz (la libertà) sotto la sedia vicino all’ingresso.
Con quel poco di vista che gli restava imparò a muoversi in quel disordine con
la sottigliezza di un topo d’appartamento. E la sua perizia di catalogatore aumentò
col passare dei giorni, aprendosi anche a generi più specifici come quello dei
cantautori, del funk, del free jazz, del country e del metal.
L’infermiera addetta alla consegna del pranzo lo
coglieva concentrato, con entrambe le mani appoggiate sulle auricolari di un
paio di vecchie cuffie, e spesso ritirava il vassoio senza che nulla fosse
stato toccato.
Tanta dedizione fece guadagnare
al signor Galileo un’insperata promozione. Una mattina fu convocato prima del
solito nella stanza 103. Due uomini stavano sollevando alcuni scatoloni, e il
Gracco gli comunicò che quel giorno avrebbe potuto (o meglio, dovuto) seguirlo
nelle sue importanti questioni giù in città. Due minuti dopo erano fuori.
Quando Galileo, il cane, che si
era appena posizionato come al solito al centro della strada, vide comparire
due uomini larghi e duri come noci che tenevano a braccetto il Gracco e il signor
Galileo, pensò bene di nascondersi perché la cosa non lo convinceva affatto.
I quattro salirono sopra un furgone bianco, sparirono
oltre l’isolato, e il cane corse loro dietro. Li raggiunse che si erano appena piazzati
dietro una bancarella lunghissima colma di dischi, un luogo e una situazione
che l’animale ricordava bene.
“Ma che c’è da strillare tanto” si lamentò l’uomo
che parlava senza virgole. La finestra del suo bagno era rimasta aperta e
Galileo, con il muso tra le inferriate, stava abbaiando a gran voce. L’uomo si
appoggiò al lavandino in pigiama e aggiunse: “Sono le undici sto per andare a
dormire e poi non fare così mi sbavi sulle primule”, ma l’insistenza del cane
lo costrinse a farlo entrare. “Beh?”
I due si guardarono. L’uomo che parlava senza
virgole, stravolto dopo una notte passata ad alleggerire una portacontainer
panamense, si chiese perché le persone non potevano fare come i cani, ovvero
fregarsene e mettersi a dormire anche lì, sul pavimento; il cane si chiese
perché i cani non potevano fare come le persone, ovvero parlare e farsi capire.
Abbaiò di nuovo grattando sulla porta, come per
convincerlo a uscire, ma l’uomo ormai aveva frainteso, pensava che il cane
volesse fermarsi da lui, così diede un paio di mandate alla serratura: “Ora
però posso andare a dormire?”
Galileo sapeva che in quella casa non avrebbe
trovato nessun guinzaglio da mordere. Così, per dire “usciamo!” dovette usare l’intelligenza.
Cercò tra gli scaffali del piccolo salotto qualcosa che potesse parlare per
lui, e quando l’occhio gli cadde sul vecchio disco che apriva la fila lo tirò
giù coi denti. Sulla copertina, mani in tasca, un signore baffuto passeggiava dentro
un cappotto nero e si specchiava dentro una vetrina.
L’uomo che parlava senza virgole disse che proprio
no, non era quello il momento di ascoltare dischi; ma poi pensò che se un cane
sceglieva un disco di Paolo Conte forse qualcosa di serio da comunicare ce
l’aveva. E lo fece suonare.
Un pianoforte, col ritmo incalzante di un treno, e le
prime sei parole che dicevano tutto. L’uomo si girò e vide il cane con una
zampa sopra i suoi jeans. Sbuffò, se li mise e lo seguì fuori, alla luce, con
la certezza che la sua sarebbe stata una giornata senza sonno. “Spero che il
motivo sia valido” disse.

Per evitare quel fracasso l’uomo si convinse a
seguire il cane. Avanzò nell’ombra, cauto, incollato al muro e con le movenze
leggere di un ragno, fino quando, dietro uno dei tigli che ombreggiavano la
piazza, vide comparire il banco del Gracco.
Trattenne il respiro. C’era una strana novità. Alla
destra di quel cieco tiranno, leggermente spaesato, con un paio di occhiali dalle
lenti fumé, c’era il suo vecchio professore di scienze Galileo Arcetri.
Riceveva piccoli ordini e li eseguiva come se anche lui non vedesse bene.
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