Il temporale in tempo reale

Si addensava nel cielo, la fine del mondo. Mentre io stendevo le ginocchia sul divano della cucina, attaccando un cornetto, l’occhio a una gara di formula uno. Si fondevano grumi di nuvole con la cattiveria di pellegrini stanchi e spossati per il troppo tempo passato a camminare. Era un amalgama di brutture che sceglievano il lembo di terra sopra cui sfogarsi. Penultima domenica di luglio, la fine dei giorni. Quando a metà pomeriggio s’entrava nelle chiese a battezzare, oppure in auto si raggiungevano parenti in provincia.

Di quella forza della natura comparvero i venti, per primi. Soffiate repentine che deviavano le frecce di quelli impegnati al bersaglio, oppure aquiloni dei bimbi sulle sponde dei laghi. Le punte temperate dei salici, degli ulivi, di vecchie querce e giovani cipressi. I gerani sanguinavano petali rossi e maturi, cadevano dai balconi e restavano nell’aria come in una processione di vergini greche. Io leccavo.

Fotografie sulle bacheche dei network sociali. Immagini rubate dalle finestre dei bagni, entusiastiche previsioni, comparivano. Ci ucciderà, quell’occhio grigio e marcio come acqua di fogna. Una cella di temporale. Nessuno osò uscire di casa a salvare il vaso del rosmarino, della salvia e del basilico, amara sorte di tutti quei futuri condimenti per pasta. Attesa.

Un brusio di preghiere s’alzava. Un brusio intellettuale, con poco cuore. Più che preghiere sembravano dichiarazioni dei redditi, bilanci sul dare e avere di anime buone. Dio, come l’ufficio delle imposte, come un finanziere in alta uniforme, tassava le grigliate destinate a rimanere a metà, metteva il veto ai tuffi in piscina, alle gare in bicicletta, ai gelati in piazza. Dio vendicatore d’estate abbassava la corrente, rimandava tutti a casa. L’angelo sterminatore avrebbe salvato solo i pigri, gli alzati tardi dopo una sbronza, i maniaci di sesso. Avrebbe salvato anche me, che ero al riparo, abbassavo le persiane, chiudevo porte per non fare corrente. Leggevo Henry Miller, annegavo al Tropico del cancro con una sigaretta e un goccio d’acqua.

Il temporale no. Di domenica. D’estate. E invece sì. I piani non sono più piani, quando si scombussolavano. Diventavano gole disseminate d’aculei appuntiti e taglienti sopra cui avrebbero gocciolato le speranze d’una settimana buona, al lavoro. Ci si metteva al riparo. Ma niente si riparava, niente s’aggiustava. Tutto si rompeva come un giocattolo nuovo. Un giocattolo, la spensieratezza dei domenicanti. Io osservavo da dietro la tenda, tifavo per le vittime.

Non s’era visto mai, ciò che stava oscurando il cielo. Dalla cima d’una collina le ultime telefonate. "Non tornerò". Uomini facevano i parafulmini con le antenne nascoste dei loro telefoni cellulari. E l’apocalisse soffiava le note di un flauto irlandese.

"No, adesso no". Il pittore malediceva la fine fatta di pioggia. Avrebbe preferito il fuoco, per dire addio alle sue creazioni. Con le gocce che avrebbero sciolto i suoi acquerelli riducendoli a un tutt’uno senza forme e senza disegno. Piangevano i fotografi impegnati nell’unico matrimonio di domenica, i bambini negli oratori, sui campi di calcio.

Gli uccelli fuggivano. Le cornacchie toglievano la corona del volatile più cattivo. La rivincita dei pappagallini in gabbia, nelle dimore delle signore anziane, salve anche loro, messe al sicuro dai dolori alle anche che non le facevano uscire da mesi.

Poi il vento cessò. Il vuoto d’aria prima del boato. Finivo il capitolo, restavo solo. Un enorme gocciolone si staccò dal cielo, colpì il mio gatto. Fummo salvi per un’altra settimana...

0 commenti: