Una struttura nemmeno troppo vecchia, anni '90, con i
pavimenti di linoleum, le scritte sui muri a bomboletta, i vetri sporchi,
qualche porta scrostata, tanto cemento. Una scuola statale delle tante.
Lampugnano, la ricca Milano.
Nella folla dell’ingresso riconosco Alice, ci abbracciamo come due
migranti dopo la traversata dell’Atlantico. Mi aveva scritto qualche giorno fa:
“Io lo tento, ne vale la pena. E tu?”
Io penso che forse forse non ne vale la pena. Per lei invece insegnare
è sempre stata l’unica alternativa fin dai tempi del liceo. La trovo agitata,
fuma l’ultima sigaretta, dice che le hanno dato il permesso di uscire anche se
ha già ricevuto la busta sigillata con le domande. Dalle vetrate intravedo file
di banchi già occupati e una grande agitazione per i corridoi. “Comunque sei in
ritardo, come al solito” mi fa notare dopo il secondo tiro, e forse starà
pensando a che professore voglio essere, senza la puntualità e la precisione.
“Entra su, che solo per registrarsi ci vuole una vita.” Fa un caldo terribile,
metà luglio, il primo giorno d’estate dopo cisterne di pioggia. Entro.
I quasi duemila sono stati divisi per lettere, cercare l’aula diventa
una caccia spietata in cui mi sento maledettamente solo, i corridoi tuonano di
urla: lunghissime code, lamentele, “signora sto facendo il mio lavoro”, trattarsi male ma con davanti il lei, “ma lei
lo sa che sto girando come un matto da un’ora?”, l’accento meridionale che nella mia testa vuol dire bidelleria, suono della campanella, quel senso di approssimativo che ti tocca
accettare fin da piccolo.
La bidella ha proprio quell’accento. E’ una signora bassa, in
ciabatte, sta appoggiata alla parete mezza sudata. Per darle un tono le hanno
messo una targhetta sul petto con scritto “T.F.A. - Servizio Assistenza”. “Da
dove arriva?” mi chiede vedendomi col fiatone. Ho appena fatto quattro piani di
scale dentro una torre che potrebbe essere quella di un penitenziario. Alla
lettera O è toccata un’ala distaccata. “Praticamente da una
maratona” le rispondo. Ride. “Eh, figlio mio, cosa dovrei dire? Tutti i giorni
faccio i chilometri, io”. Si stacca dal muro e zoppicando mi accompagna dentro
alla stanza dove vengo registrato. Esco con una busta in mano. Tutti gli altri
sono già seduti addossati alle pareti di un corridoio che gira in tondo e non
se ne vede la fine. Nessuna finestra. “Togliete i sigilli solo al suono
prolungato della campanella” dicono quando le lancette dell’orologio segnano le
dieci. Un’ora dopo - a due ore di distanza da quello che doveva essere l’orario ufficiale -, quando oramai le battute e le minacce si sono sprecate e
nessuno ci spera più, sentiamo il trillo.
Le buste si aprono: ci sono sessanta domande a risposta multipla. Rido pensando a quante
puntate del Milionario potrebbero
farci, poi penso agli stipendi da fame che spetteranno ai più
fortunati di noi e non rido più. L’unico milione con cui avremo a che fare
sarà quello di Marco Polo, ammesso che resista al lento assottigliarsi dei
programmi di letteratura.
Le domande. Chi come me insegna già da qualche anno sa che uno dei
ritornelli su cui insistono sempre più spesso presidi, Ministero e addetti al
settore è quello di una scuola sempre meno nozionistica. Infatti. Qui c’è da
sapere la data del concilio di Worms, i confini del Molise, i versi di Sbarbaro
a memoria e lo Zollverein tedesco. Mi guardo attorno, sono tutti con la testa
china. Chi riuscirà a collezionare quarantadue risposte esatte passerà. A cosa?
A una prova scritta, e chi passerà anche quella arriverà al fatidico orale. A
quel punto sarà ottobre, e ai pochi rimasti spetterà il premio: pagare un paio
di migliaia di euro per frequentare un corso universitario di un anno (si
chiama Tirocinio Formativo Attivo) al termine del quale avrà ottenuto l’abilitazione
all’insegnamento. Dopodiché, anni di precariato nello Stato. E pensare che
Dante ha dovuto fare tutta quella fatica per immaginarsi l’inferno.
I controlli non esistono. Alle mie spalle sento bisbigliare,
all’inizio poco, poi sempre di più, e ogni volta penso che mi basterebbe andare
in bagno, estrarre dalla tasca il telefono cellulare e verificare su internet
le risposte. Ma non lo faccio, non voglio togliere al destino il compito di
decidere se è davvero in posti così, tra gente così, che dovrei investire il mio
futuro.
Alla fine delle due ore un altro suono di campanella. Veniamo chiamati
a turno per riconsegnare le risposte in busta chiusa, le operazioni durano una
vita. Nel frattempo, dall’altra parte della torre, nel lato oscuro di quel corridoio
circolare, si procede a una bella revisione collettiva. Infine il serpentone di
gente scivola giù per le scale. Mi alzo per ultimo, qualcosa mi spinge verso la
stanza dove i dirigenti stanno impilando le buste. “Scusate…” dico,
“permettetemi di chiedervi una cosa”. I tre alzano la testa abbozzando una
specie di assenso. “Voi credete davvero alla serietà di quello che state
facendo?”. In due ridono, la terza reagisce seccata, mi indica l’uscita, dice
che non mi devo permettere perché lei sta rappresentando lo Stato. Allora me ne
vado e penso che tutto sommato non ha tutti i torti, in effetti lo Stato finora lei lo ha rappresentato benissimo. Per due ore, seduta scomposta su una sedia e con i
piedi fuori dalle scarpe, ha letto annoiata 1984
di Orwell dimostrando almeno un paio di cose: di avere ancora qualche lacuna
letteraria da colmare e di non porsi minimamente il problema di rendere
efficace e credibile il suo operato.
All’uscita, nel marasma, ritrovo Alice. E’ inviperita, anche lei ha
visto gente copiare con i più semplici stratagemmi. “Non è giusto” dice. “Già”
rispondo io. E' sempre stata
brava e preparata, non vuole che passi anche chi non se lo merita. Io invece mi
chiedo dove stia la vera fortuna, se nel farla franca o nell'uscirne sconfitti.
Mi volto: scritte sui muri a bomboletta, i vetri sporchi, qualche
porta scrostata, tanto cemento. Una scuola delle tante, senza studenti dentro,
senza lo straccio di un sogno.
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