Judith Schalansky ha scritto questo libro per me. La devo proprio
ringraziare. Soprattutto per quella dedica iniziale, in cui mi pare metta
perfettamente nero su bianco un pensiero che devo averle riferito in uno dei
nostri incontri. Incontri avvenuti certamente in un’altra vita, dato che io e
lei – in questa – non ci siamo mai incontrati. Judith scrive così:
“Che una bambina della mia classe fosse nata davvero a Helsinki, come
c’era scritto sul suo documento d’identità, aveva per me dell’incredibile.
H-e-l-s-i-n-k-i: queste otto lettere divennero la chiave per un altro mondo, e
ancora oggi mi capita di trattare con mal celato stupore i tedeschi che, per
esempio, sono nati a Nairobi o a Los Angeles, e non di rado li considero solo
degli sbruffoni, proprio come se affermassero di venire da Atlantide, da Thule
o da El Dorado. Naturalmente so che Nairobi e Los Angeles esistono davvero.
Queste città infatti sono segnate sulla carte. Ma che qualcuno possa esserci
stato realmente, o che addirittura ci sia nato, per me è inconcepibile, oggi
come allora.”
Davvero non so come Judith possa esserne a conoscenza. Ma anch’io sono
cresciuto con questo esatto pensiero. E più volte mi sono trovato a viaggiare
con il solo obiettivo di controllare che certi luoghi – quelli che mille volte
ho toccato sopra il mio Atlante Zanichelli tenuto insieme con lo scotch –
esistessero per davvero. Mi è capitato a Buenos Aires, a Istanbul, a New York e
a Oslo. Ed è il motivo per cui vorrei fiondarmi a Baku, a Ulan Bator, a
Santiago del Cile e ad Antananarivo. Devono avere nomi esotici, epici, crudi;
devono avere una storia travagliata (per questo va benissimo anche Sarajevo);
non devono essere belli: se non sono belli meglio, basta che io ci possa andare
e abbia conferma che le carte non mentivano, che le immagini viste in tv non
fossero fotomontaggi.
Considero gli atlanti i più bei romanzi scritti dall’uomo. Spesso
anche loro ingannano (la carta, il planisfero, il mappamondo ingannano sempre –
niente può essere perfetta rappresentazione della Terra), ma lo fanno
benissimo. “Sull’infinita Terra sferica, ogni punto può diventare il centro”
dice la mia amica Judith, che è nata nella Germania Est e per molto tempo ha
usato l’atlante per viaggiare in tutti quei luoghi, anche vicinissimi, che le
erano proibiti. Sento che qui c’è di mezzo la vecchia questione del “vicino” e
del “lontano”, e non sbaglia chi ha definito questo libro una sorta di epica
della lontananza.
“Atlante delle isole remote. Cinquanta isole dove non sono mai stata e
mai andrò” è un compendio di luoghi infinitamente distanti e storie nate ai
margini. Perché le isole? Perché esse sono come piccoli continenti imprigionati
da un Oceano senza fine: spesso li crediamo dei paradisi, ma, come dice Judith,
possono trasformarsi in inferni belli e buoni. Luoghi dove muoiono bambini o
dove ricchi miliardari traslocano insieme alle loro follie.
Certamente le isole scelte da Judith hanno in comune il trovarsi a
migliaia e migliaia di chilometri dalla terraferma. Sono puntini che spesso le
carte dimenticano. Davvero non ci si spiega come un mucchietto di terra e rocce
possa essere caduto nel mezzo del nulla, lì dove per esempio sorgono Diego
Garcia o Sant’Elena o Pasqua.
A me piace pensare che siano le briciole cadute dalla tovaglia di Dio.
E non mi accontento, come fa Judith. Io su una di queste ci voglio capitare per
davvero, dare un’occhiata, farmi venire la voglia di tornare a casa e
raccontare tutto.
Judith Schalansky
“Atlante delle isole remote - Cinquanta isole dove non sono mai stata e mai andrò”
Bompiani, 2013
pag. 142
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