Un bivio.
Della morte e del suo suono il signor Galileo non
aveva alcuna esperienza. Forse anche per questo la cosa precipitò mentre lui
dormiva con le braccia conserte nell'ultima fila di sedili, la tempia sinistra
incollata al vetro del finestrino.
Si destò alle prime parole concitate di chi stava
viaggiando con lui lungo la campagna, sopra una statale poco battuta, umida di
pioggia fitta come nebbia.
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Aveva smesso di reggersi sulle zampe da qualche
giorno, il cane Galileo, e nelle ultime ore il suo sguardo si era nascosto
dietro a due sottili fessure prive di umore. Adesso il suo respiro chiedeva
aria, lo faceva con colpi di tosse quasi umani, e quando finalmente la trovò il
suo naso e la sua bocca sentirono bruciare.
Esistono storie che s’interrompono nello stesso
modo in cui si interrompe l'ispirazione di uno scrittore, oppure di un
cantante. Sono storie che si arrestano nell'esatto momento in cui dovrebbero,
anche se apparentemente danno l'idea di cadere bruscamente e senza alcun senso.
La storia del cane Galileo si interruppe lì, a
bordo di una strada asfaltata. Il senso di tutto quel che accadeva si propagò
nell'aria e si stese sul suo muso, finalmente rilassato e disteso. Il perché
delle cose stava in quello che aveva compiuto negli ultimi mesi. Azioni spese
non per sé, ma per un altro, il suo padrone, colui che anni prima, dopo averlo
trovato nell'androne del suo palazzo, aveva scelto di chiamarlo col suo stesso
nome, o quasi: "Non pensare che ti voglia chiamare come me” aveva
affermato con voce ferma il signor Galileo quella volta, “figuriamoci! Io mi
chiamo come mio nonno, uno che si era giocato tutto a carte e che si trovò
vecchio e solo senza una lira, tu invece ti chiamerai come quello che della
luna ha fatto la sua migliore amica.".
Il perché, dunque… Aver svolto il proprio compito
fino alla fine e fino a quando ce n'era stato bisogno. Essere stato l’occhio
fedele di chi ne cercava di nuovi per sé. E una volta che li aveva trovati,
farsi da parte.
In quei giorni di primo inverno lui e il suo
padrone stavano finalmente viaggiando. Viaggiavano con una banda di suonatori
fra cui c'era Ermes. Passavano di teatro in teatro facendo della musica un
suono e, nel caso del signor Galileo, delle immagini per orecchio. L'idea era
stata proprio di Ermes: far diventare tangibile la teoria del professore.
"Ma come?" aveva chiesto il signor Galileo quella volta in cui se ne
stava parlando sul serio. "Raccontando" aveva risposto Ermes.
"Non scherziamo, un professore di scienze in pensione che si mette a fare
il poeta!" aveva obiettato
lui.
Proprio così andò. E se non era un poeta, poco ci mancava. Il signor
Galileo sapeva alzarsi fino alla luna con le parole, quando qualcuno suonava
attorno a lui. Portava vicina ogni cosa lontana.
Ora però i Galilei si separavano.
Il professore fu aiutato a muoversi e si mise seduto
al bordo del camioncino. Gli allungarono il braccio nel vuoto finché la sua
mano non trovò il pelo del cane.
Ecco, la morte un suono ce l'aveva. Era il mormorio
di un tradimento, come mettere insieme una terzina di note: DA TE NO.
Ma chi vive non può capire tutto, solo alcune cose.
Allora come un'eco sorse una risposta. Le nuvole, all'orizzonte, si
sfilacciavano sopra altri campi e altri boschi. L'alba si componeva un tono di
rosa dopo l’altro. Il signor Galileo la vide. Era come un respiro dopo
un'apnea.
Esistono storie che devono proseguire per forza
come forzatamente scrive uno scrittore, oppure canta un cantante. Sono storie
che vanno troppo oltre, ma vanno dove devono, a costo di apparire affannate.
Il camioncino dunque ripartì dopo che una buca fu
scavata. A giorno fatto arrivò in una nuova città. Si fece colazione tutti
insieme, e il sole lassù sembrava una luna travestita da maschio.
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