La musica
della scoperta.
La roba stava ammucchiata tutta in una stanza. Era
un enorme salone da ricevimenti, buio, con le persiane abbassate, il pavimento
lucido e un odore di cera nell’aria. Al centro incombeva, come uno scoglio
affiorante dall’acqua, quel cumulo di scatoloni, valigie e casse di legno a cui
aveva accennato con un certo distacco il custode all’ingresso della villa.
Entrando, il cane Galileo si era espresso in un
guaito rimasto in sospeso tra i quattro angoli della sala per un tempo infinito,
mentre il signor Galileo avanzava silenzioso a braccetto di Ermes Bonaventura:
nella semioscurità della stanza, avanzata com’era la sua malattia, non vedeva
nulla se non fili sottili di luce che lo disturbavano.
“Cosa c’è?” chiese annusando l’aria.
“C’è un mucchio di roba che ci guarda” rispose il
suo bastone.
Si avvicinarono. Come un oracolo il signor Galileo
stese le braccia in avanti e toccò. Era spaesato ma tranquillo.
“E ora cosa facciamo voglio dire
siamo venuti fin qua qualcosa bisognerà pur fare o no?” domandò Ermes, che
tuttora parlava senza virgole e che sentiva il peso di una responsabilità.
Il signor Galileo non era lì per
sé, ma per saldare un vecchio debito. Sapeva che in quella montagna di ferri
vecchi e reliquie di famiglia non c’era nulla per un vecchio cieco come lui,
rimasto senza casa. La partita, lì, doveva giocarla qualcun altro.
“Ti secca farmi sedere?” pregò.
Ermes sfilò una cassa di legno
dal grande cumulo e vi ci fece sedere il signor Galileo.
“Grazie. Ora cerca.”
“Cerco cosa?”
“Qualcosa di tuo.”
“Professore qui non c’è nulla di
mio.”
“Non si sa mai.”
Ci fu un silenzio breve come certe primavere. Poi
il vecchio sentì i primi fruscii, qualche oggetto spostarsi, un calpestio, i
cartoni sfregare.
“Un presepe napoletano…” commentò Ermes alla sua
prima scoperta.
La cosa sarebbe stata lunga e il professore lo
sapeva. Lo sperava, perlomeno.
Il tempo evaporò, si sollevò. La luce del giorno si
caricava lentamente di scuro finché dalle fessure delle imposte non entrò
qualche fiacco raggio di luna.
Ermes stava scavando ormai da ore in quel monte di
cianfrusaglie, e continuamente rendeva conto al signor Galileo di quel che
portava alla luce (la luce di un grande lampadario di cui con sforzo aveva
trovato l’interruttore): “Bastone da passeggio… Porta carte in osso… Racchette
da neve…”
Dei grani di quel lungo rosario, ovviamente, il
signor Galileo riconosceva solo l’odore. Restava in ascolto di quel cercare
impacciato: metalli che si incontrano, un legno spezzato, pagine impolverate
che vengono smosse. C’era nell’aria la sensazione che la vita restasse anche
negli oggetti, e che gli oggetti fossero a volte anche più sinceri della vita.
Sudato, Ermes ne disseppelliva le tracce. Frugava nella memoria di altri, nelle
ragioni di amori poco sbocciati, nelle indifferenze che abitano in tante
famiglie. E in mezzo a tante cose non sue, con il passare dei minuti e delle
ore, il suo inconscio gli spiegava che i Galilei erano lì per lui, per fargli
una sorpresa.
Che musica! Il suono dei desideri, del cuore che
tamburella per qualcosa, del ricordo che picchia forte tra il passato ed il
futuro.
La villa ora era vuota. Dovevano averli dimenticati
lì. Fuori, nel piccolo parco, le punte degli alberi si muovevano al vento di un
temporale fatto altrove, lungo la riviera. Dentro la sala il lavorio
proseguiva: Galileo il cane dava una mano, odorava scatola dopo scatola,
leccava le cose sperimentandone il sapore, finché il suo umido naso sbatté
contro una superficie lucida e fredda, leggermente polverosa, liscia come un
pomo d’ottone.
Abbaiò perché sapeva.
“Che c’è cagnone cos’hai trovato?”
Scalpiccio di vecchi fogli di carta di giornale.
“Insomma perché hai abbaiato?”
Se le virgole hanno un suono, se ce l’ha un vecchio
filo di spago, che trattiene le cose come fanno i ricordi.
“Vediamo un po’…”
Un pacco che cade. A Ermes tremano le mani. Le mani
che toccano. La musica della scoperta. Qualcosa che esce. Un sassofono.
Non appena il tremore passò, l’uomo sistemò le mani
e la bocca dove sapeva. Sentì sulla punta della lingua la grana fine della polvere.
Poi soffiò dentro l’ancia.
Prima un fischio stridulo come il verso di un gabbiano. Poi un altro, ma più intonato. Infine nel salone, che adesso era diventano grande e pieno come il mondo, si versò una melassa di note che al signor Galileo, tuttora seduto al suo posto, parvero la quintessenza della pienezza, la cosa più corposa e meno incerta che possa mai trovare posto sulla Terra.
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