I Galilei - Puntata n.9

Le cose appena accadute.

I contorni sfuocati di una banda, tutti in fila per due, i tasti degli ottoni, le mostrine di tela, il contorno di cappelli colore del cielo, un naso sorridente, la riva del mare, i sassolini bianchi che si scuriscono non appena li tocca una suola bagnata di scarpa, i gabbiani come lettere nere in un foglio senza righe né quadri, la sagoma di un olivo, il legno scrostato di una barca, un mucchio di alghe, fogli di giornale, il telo di un bersò, qualche tavolo, un’isola nascosta dalle onde, il fumo di un fuoco, l’anima sfumata di una conchiglia, una corda, il sale incrostato, la greca dei palazzi tra il golfo e la montagna, un porto, una bambina che salta e oscura il sole, una mano bruna e tozza che accarezza un gatto con la coda bianca, di nuovo la banda questa volta in cerchio, la bacchette del tamburino, una bicicletta abbandonata, due nuvole vicine che ne formano una,  un ciuffo, le proprie ginocchia. E il volto morbido, semplice, umano del suo cane.
Furono queste le ultime cose che il signor Galileo riuscì a intravedere in vita sua. Quello che i suoi occhi gli avevano appena regalato era stato un desiderio esaudito, un ultimo saluto. Poi la saracinesca si chiuse una volta per tutte.

Un applauso lungo e asciutto si sparse nell’aria.
“Professore!”
Ermes gli correva incontro raggiante dentro la sua nuova divisa blu, i bottoni lustri, la cravatta a nodo fine.
“Allora, cosa gliene pare? Come sono andato?” domandava col fiatone.
Il signor Galileo aveva lo sguardo perso tra la linea della spiaggia e quella delle onde. Un ragazzino era rimasto l’unico ad applaudire ancora, Ermes si voltò in quella direzione, sorrise lievemente, infine tornò con lo sguardo dritto sull’uomo.
“Professor Arcetri, va tutto bene?”
Uno schizzo d’acqua raggiunse le camicie di entrambi.
“Certo! Sì, certo…” pronunciò il signor Galileo. Si alzò. “Vieni Galileo, portami” aggiunse, e si appoggiò all’animale con quell’abbandono che solo con un amico, dopo una sbornia, ci si concede.
Il cane scelse una roccia sulla battigia qualche centinaio di metri più in là. Quando si trovò seduto, il signor Galileo chiese al compagno se fosse pronto.
“Non essere buono” stabilì. “Abbaia solo se è come dico.”
Passò qualche secondo in cui il mondo andò avanti.
“Un windsurf, vicino alla boa. La vela è appena caduta in acqua…” certificò il signor Galileo.
Il cane abbaiò una volta. Poi un’altra. “Non esagerare” lo pregò l’uomo.
“Quella barca in secco…” proseguì. “Il bimbo nascosto chiederà una tana libera tutti.”
Si sentirono grida, qualche protesta, e un urlo di gioia. Il signor Galileo aveva indovinato di nuovo e il suo compagno glielo confermò.
“Eccovi!” disse una voce. Ermes aveva congedato i compagni, portava il sassofono ancora al collo. Non aveva trovato una custodia in tempo. “Professore! non ha sentito il mio assolo?”
La risacca trascinava i ciottoli. I tre s’intesero senza cercarsi.
“Allora è successo… Vero, professore?” domandò Ermes.
“Sì, è capitato” confermò Galileo, l’uomo. E come se intuisse che una cosa, quando accade, già si è trasformata nel suo contrario, disse: “Sono felice.”
Ermes non capì il senso di quelle ultime due parole. Pensò che il signor Galileo volesse partecipare della sua felicità, dell’appagamento dopo il suo primo concerto, che condividesse la sua scelta di ripartire da lì, da una banda di paese che si ritrovava una domenica di ottobre a festeggiare il santo patrono. Per questo rispose “grazie”.
Ma il signor Galileo, senza egoismi, parlava solo per sé. Aveva appena elaborato la sua prima teoria personale. Unica, apparentemente infallibile. E nulla ascoltò se non i colori, la carnagione di quella sera neonata.
  
  
    

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