Le cose
appena accadute.
I contorni sfuocati di una banda, tutti in fila per
due, i tasti degli ottoni, le mostrine di tela, il contorno di cappelli colore
del cielo, un naso sorridente, la riva del mare, i sassolini bianchi che si
scuriscono non appena li tocca una suola bagnata di scarpa, i gabbiani come
lettere nere in un foglio senza righe né quadri, la sagoma di un olivo, il
legno scrostato di una barca, un mucchio di alghe, fogli di giornale, il telo
di un bersò, qualche tavolo, un’isola nascosta dalle onde, il fumo di un fuoco,
l’anima sfumata di una conchiglia, una corda, il sale incrostato, la greca dei
palazzi tra il golfo e la montagna, un porto, una bambina che salta e oscura il
sole, una mano bruna e tozza che accarezza un gatto con la coda bianca, di
nuovo la banda questa volta in cerchio, la bacchette del tamburino, una
bicicletta abbandonata, due nuvole vicine che ne formano una, un ciuffo, le proprie ginocchia. E il
volto morbido, semplice, umano del suo cane.
Furono queste le ultime cose che il signor Galileo
riuscì a intravedere in vita sua. Quello che i suoi occhi gli avevano appena
regalato era stato un desiderio esaudito, un ultimo saluto. Poi la saracinesca
si chiuse una volta per tutte.
“Professore!”
Ermes gli correva incontro
raggiante dentro la sua nuova divisa blu, i bottoni lustri, la cravatta a nodo
fine.
“Allora, cosa gliene pare? Come
sono andato?” domandava col fiatone.
Il signor Galileo aveva lo
sguardo perso tra la linea della spiaggia e quella delle onde. Un ragazzino era
rimasto l’unico ad applaudire ancora, Ermes si voltò in quella direzione, sorrise
lievemente, infine tornò con lo sguardo dritto sull’uomo.
“Professor Arcetri, va tutto
bene?”
Uno schizzo d’acqua raggiunse le
camicie di entrambi.
“Certo! Sì, certo…” pronunciò il
signor Galileo. Si alzò. “Vieni Galileo, portami” aggiunse, e si appoggiò
all’animale con quell’abbandono che solo con un amico, dopo una sbornia, ci si
concede.
Il cane scelse una roccia sulla
battigia qualche centinaio di metri più in là. Quando si trovò seduto, il
signor Galileo chiese al compagno se fosse pronto.
“Non essere buono” stabilì.
“Abbaia solo se è come dico.”
Passò qualche secondo in cui il
mondo andò avanti.
“Un windsurf, vicino alla boa.
La vela è appena caduta in acqua…” certificò il signor Galileo.
Il cane abbaiò una volta. Poi
un’altra. “Non esagerare” lo pregò l’uomo.
“Quella barca in secco…”
proseguì. “Il bimbo nascosto chiederà una tana libera tutti.”
Si sentirono grida, qualche
protesta, e un urlo di gioia. Il signor Galileo aveva indovinato di nuovo e il
suo compagno glielo confermò.
“Eccovi!” disse una voce. Ermes
aveva congedato i compagni, portava il sassofono ancora al collo. Non aveva
trovato una custodia in tempo. “Professore! non ha sentito il mio assolo?”
La risacca trascinava i
ciottoli. I tre s’intesero senza cercarsi.
“Allora è successo… Vero,
professore?” domandò Ermes.
“Sì, è capitato” confermò
Galileo, l’uomo. E come se intuisse che una cosa, quando accade, già si è
trasformata nel suo contrario, disse: “Sono felice.”
Ermes non capì il senso di
quelle ultime due parole. Pensò che il signor Galileo volesse partecipare della
sua felicità, dell’appagamento dopo il suo primo concerto, che condividesse la
sua scelta di ripartire da lì, da una banda di paese che si ritrovava una
domenica di ottobre a festeggiare il santo patrono. Per questo rispose
“grazie”.
Ma il signor Galileo, senza
egoismi, parlava solo per sé. Aveva appena elaborato la sua prima teoria
personale. Unica, apparentemente infallibile. E nulla ascoltò se non i colori,
la carnagione di quella sera neonata.
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