Papà.
Quando giugno arrivò, fu un mese pieno di domande e
di polline. Tutte cose che di solito mettono prurito al naso. E il signor
Galileo si rivelò il più allergico dei tre abitanti di quella minuscola casa.
Nelle lunghe notti in cui Ermes lavorava giù al
porto, mentre Galileo il cane mugugnava nel sonno stando raccolto sul divano,
egli rimaneva immobile a pensare, avvolto dal buio.
Quei gomitoli di pensieri, ruvidi come la iuta, si
riavvolgevano puntualmente tutti quanti attorno a un gancio appuntito, un
uncino, che il signor Galileo sentiva avvitato nella zucca e che, ormai ne era certo, aveva la
forma precisa di un punto interrogativo.
Per quanto tempo sarebbe rimasto ospite del suo ex
alunno Bonaventura? E come avrebbe affrontato la sua ormai prossima cecità? Ma
soprattutto: che fine aveva fatto suo figlio Bellarmino, il quale non solo
aveva misteriosamente cessato di versare la retta alla casa di cura dove
l’aveva scaraventato, ma da una settimana non rispondeva nemmeno più al
telefono?
Qualche notizia la portò Ermes un mezzogiorno
tornando dal lavoro. Un trafiletto di giornale, cacciato in fondo tra la
cronaca locale, diceva che Bellarmino Arcetri era finito in prigione: la sua
società immobiliare, quella società che qualche mese prima aveva costretto il
signor Galileo ad abbandonare come un profugo la sua soffitta, aveva frodato lo
stato più o meno da quando era nata, ed ora gliene si chiedeva il conto.
La notizia colse l’uomo come la tiepida aria umida
di un temporale annunciato. Il non poter leggere da sé quella notizia e il non
riuscire a vedere i segni che essa lasciava sui volti dei suoi compagni, forse,
lo avevano predisposto a una certa indifferenza.
Ma le prima gocce di pioggia non tardarono ad
arrivare.
Una lettera, che Galileo il cane afferrò con i
denti da sotto la porta (come sapessero che ora il signor Galileo abitava
proprio lì è ancora un mistero), gli comunicava che la casa del figlio stava
per essere messa all’asta e che i parenti – ovvero lui – erano invitati a
ritirare dall’abitazione ciò che ritenessero di loro proprietà.
Il signor Galileo restò per un tempo lungo e
impreciso nella sua posizione, alla testa del tavolo. Le voci del vicolo
entravano dalla finestra, si sentivano le pallonate dei ragazzini ormai liberi
di fare tardi. Forse i più grandi di loro avevano l’età in cui Ermes aveva
indossato per la prima volta la tuta da lavoro. Sedici anni, al porto, tutte le
notti. A pensarci bene non era stato un così cattivo studente, quel
Bonaventura… Certo, per nulla studioso, ma intelligente, acuto. In qualche
maniera, appassionato alle cose. Una volta lo aveva sfidato davanti a tutta la
classe, aveva detto che lui i compiti non li faceva perché preferiva suonare il
sassofono. Stravedeva per la musica. Che seccatura era invece all’epoca per
lui, la musica, con quel figlio viziato in casa a stressare, l’idea di suonare
uno strumento, andare a lezione, ci mancava solo quello. Cosa sarà, cosa te ne
fai, cosa ti serve la musica adesso, pretendeva di sapere da Bellarmino ogni
volta che a tavola lui rimetteva sul piatto la solita questione. Per fortuna
era capitato il caso dei Bonaventura, quel sassofono del figlio ritirato da
scuola…
A quel punto il signor Galileo sentì caldo e provò
imbarazzo. Quei ricordi lo fecero sentire in colpa: certo, erano passati più di
vent’anni, ma il pensiero che venisse dalla sua penna quell’ultimo brutto voto,
quel segno sul registro che aveva regalato al suo studente una vita di stenti e
a suo figlio uno strumento nuovo di zecca, lo infragilì. Molto più ora di
quando, giorni prima, la stessa storia gli era stata raccontata
dall’interessato in persona.
Si alzò e a tentoni raggiunse la stanza
brancolando, un salottino che faceva da tutto tranne che da bagno. Prima di
uscire Ermes aveva aperto il divano letto e lo aveva preparato per la notte.
Lui ci si sdraiò sopra come se avesse qualche anno in più sulle spalle. Allungò
il braccio e stese la mano sopra il pelo cortese del suo cane. E restò.
Restò: questo fece il signor Galileo. Restò e
sentì. Sentire è una cosa di pelle, pensò. Pensò anche che in quella casa
sconosciuta ci sarebbe andato. Poi disse: “Galileo, cerca un bel disco che
parli di un padre.” Lo sentiva, l’odore di vecchio dei dischi, ovunque in
quella stanza. Il cane si mosse, usò il suo fiuto, ma non ne trovò.
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